LA PIANURA DEI SETTE FRATELLI
da "Appunti Partigiani" (4'31")
LA
PIANURA DEI SETTE FRATELLI
da "Appunti Partigiani" (4'31")
Canzone scritta dai fratelli Severini ( GANG ) sulla vicenda della
famiglia Cervi, una tipica famiglia patriarcale della campagna reggiana,
famosa per la sua dedizione al lavoro come alla causa antifascista. Di fede
cristiana e comunista, all'indomani dell'8 settembre, i Cervi non esitarono
a dare rifugio a molti ex prigionieri e partigiani, intrecciando rapporti con
molti gruppi di combattenti per la libertà. I sette fratelli pagarono
con la vita questa loro militanza.
Marino
Severini alla voce.
La mattina del 25 novembre 1943, alle ore 6.30, la casa dei Cervi
viene circondata da militi della Guardia Nazionale Repubblicana (GNR). Gli uomini
presenti, il padre Alcide e i sette figli, due italiani (Quarto Camurri e Dante
Castellucci) e quattro stranieri vengono arrestati, caricati sui camion e portati
nel carcere politico dei Servi, a Reggio Emilia, mentre le donne e i bambini
sono abbandonati per strada, e la casa viene saccheggiata e incendiata. Gli
stranieri arrestati (assieme a Castellucci, che ha avuto la prontezza di farsi
passare per francese, salvandosi così la vita) vengono trasferiti a Parma,
mentre i sette fratelli subiscono maltrattamenti affinché parlino. Nel
frattempo c'è chi tenta di organizzare la loro evasione dal carcere di
San Tommaso, dove sono stati trasferiti. Ma continuano anche le azioni gappiste:
il 15 dicembre viene ucciso il seniore della Milizia Giovanni Fagiani e il 27
dicembre - con un'azione peraltro mai rivendicata - il segretario comunale di
Bagnolo in Piano, Davide Onfiani. Dopo quest'ultima uccisione, le massime autorità
del fascismo reggiano decidono di compiere una rappresaglia. All'alba del 28
dicembre 1943, alle 6.30, i sette fratelli Cervi e il loro compagno partigiano
Quarto Camurri sono portati alla fucilazione, nel Poligono del tiro a segno
di Reggio Emilia. Il giornale "Il solco fascista" dà notizia
della rappresaglia il giorno stesso in cui viene compiuta omettendo però
i nomi dei fucilati, e i corpi vengono sepolti in un luogo nascosto, il cimitero
di Villa Ospizio. Sembra quasi che ci sia da parte fascista timore ad assumere
in pieno la responsabilità di quanto deciso, e gli stessi certificati
di morte non vengono firmati. La rappresaglia, oltre ad essere finalizzata ad
incutere terrore tra la popolazione e gli avversari, è anche una prova
di forza compiuta per rinsaldare le fila all'interno del fascismo repubblichino
reggiano. (tratto dal sito
del museo Cervi)
Alcide
Cervi, "Papà Cervi"
Nato a Campegine (Reggio Emilia) il 6 maggio 1875, morto nella notte tra il
26 e il 27 marzo 1970 all’ospedale di San Ilario (RE), contadino.Per gli
italiani e gli antifascisti che, nel secondo dopoguerra, l’hanno conosciuto
o, semplicemente, hanno saputo di lui, era affettuosamente "Papà
Cervi". Eppure è stato una figura leggendaria tra quante hanno illustrato
la Resistenza italiana. Di lui e dei suoi sette figli trucidati hanno scritto,
tra i tanti, Piero Calamandrei, Renato Nicolai, Luigi Einaudi, Arrigo Benedetti;
ma a dirne la tempra sono le sue stesse parole, pronunciate dopo che gli fu
consegnata una medaglia d’oro, realizzata dallo scultore Marino Mazzacurati,
che da un lato reca l’effigie di Alcide e dall’altro un tronco di
quercia tra i cui rami spezzati brillano le sette stelle dell’Orsa: "Mi
hanno sempre detto…tu sei una quercia che ha cresciuto sette rami, e quelli
sono stati falciati, e la quercia non è morta… la figura è
bella e qualche volta piango… ma guardate il seme, perché la quercia
morirà, e non sarà buona nemmeno per il fuoco. Se volete capire
la mia famiglia, guardate il seme. Il nostro seme è l’ideale nella
testa dell’uomo".
A quello stesso ideale si richiamava il padre di Alcide, Gelindo, imprigionato
nel 1869 per aver partecipato ai moti contadini contro la tassa sul macinato
che, solo a Campegine, erano costati sette morti e dodici feriti tra i dimostranti
e sessanta arresti. Lo stesso ideale, alla scuola dell’apostolo socialista
Camillo Prampolini, Alcide Cervi seguì per tutta la vita. Durante la
dittatura, quando con la sua famiglia si limitava a lavorare duramente i campi,
subì perquisizioni e persecuzioni, ma non si piegò mai ai fascisti.
Così, il 26 luglio del 1943, tutti Cervi erano a Reggio Emilia, alla
manifestazione per esigere la scarcerazione dei detenuti politici. Dopo l’8
settembre i Cervi organizzarono la fuga dei prigionieri alleati dal campo di
Fossoli, li accolsero nella loro fattoria e con loro, con la famiglia Sarzi,
che gestiva una compagnia di teatro viaggiante, e con altri amici organizzarono
una formazione partigiana della quale faceva parte pure un sacerdote, don Pasquino
Borghi, che verrà catturato e fucilato.
La notte del 25 novembre 1943 i fascisti accerchiarono la casa dei Cervi, che
si difesero sparando dalle finestre sino a che ebbero munizioni. Costretti ad
arrendersi furono tutti incarcerati a Reggio Emilia, dove i sette fratelli furono
fucilati, con il patriota Quarto Camurri, la notte del 25 novembre. Alcide,
che ignorava la sorte dei figli, rimase in carcere sino al 7 gennaio 1944, quando
un bombardamento aereo smantellò l’edificio e gli permise di fuggire.
Tornato a casa, la trovò distrutta, apprese che tutti i figli erano stati
sterminati, ma non si piegò. Con la moglie, Genoveffa Cocconi, le quattro
nuore e dieci nipotini riprese a lavorare per ricostruire la casa e condurre
la terra. Il 10 di ottobre i fascisti tornarono e distrussero quel che i Cervi
superstiti avevano ricostruito. Genoveffa non resse e un mese dopo morì.
Alcide resistette ancora e per altri 14 anni, con quel che gli era rimasto della
famiglia, continuò a coltivare il seme della libertà. Oggi la
sua casa è museo della Resistenza. (tratto dal sito
dell'ANPI)
I
sette fratelli Cervi
Gelindo (classe 1901), Antenore (1906), Aldo (1909), Ferdinando
(1911), Agostino (1916), Ovidio (1918), Ettore (1921).Tutti
nati a Campegine (Reggio Emilia), tutti fucilati il 28 dicembre 1943 nel poligono
di tiro di Reggio Emilia, tutti Medaglia d’Argento al Valor Militare alla
memoria.
I fratelli Cervi (il maggiore aveva 42 anni, il più giovane 22) e il
patriota Quarto Camurri, con loro ristretto prima nel carcere dei Servi e poi
in quello di San Tomaso, avrebbero forse potuto salvarsi. Dopo la cattura i
Cervi (il padre Alcide, già in età avanzata, dopo la sparatoria
e la resa, decisa per non coinvolgere le donne e i bambini, era stato separato
dai figli) erano stati a lungo interrogati e seviziati, ma i fascisti non ne
avevano cavato nulla. Ad un certo punto – si racconta - giunsero a dirgli:
"Volete il perdono? Mettetevi nella Guardia Repubblicana". Risposero:
"Crederemmo di sporcarci". Nemmeno i quattro dei Cervi che erano ammogliati
ed avevano figli, compreso Gelindo che ne aveva un altro in arrivo, cedettero
alle lusinghe. Allora li presero e li portarono tutti al poligono di tiro.
Non si sa quanto abbia pesato, nella decisione di non cedere, l’influenza
che Aldo, il più "politicizzato" dei Cervi, esercitava da anni
sui fratelli e sui contadini della zona, ai quali aveva insegnato nuovi sistemi
d’irrigazione. Aldo – scrisse Piero Calamandrei – non perdeva
occasione per educare se stesso e gli altri. "Quando dopo molti anni di
accanita fatica di braccia, la famiglia Cervi poté permettersi i lusso
di acquistare un trattore, Aldo andò a prenderlo in consegna a Reggio:
e sulla strada che porta a Campegine i vicini lo videro tornare trionfante,
al volante della macchina nuova, sulla quale aveva issato, come una bandiera
internazionale, un gran mappamondo". Oggi la loro casa di Campegine è
stata trasformata in un museo. (tratto dal sito
dell'ANPI)
E terra, e acqua, e vento
Non c'era tempo per la paura,
Nati sotto la stella,
Quella più bella della pianura.
Avevano una falce
E mani grandi da contadini,
E prima di dormire
Un padrenostro, come da bambini.
Sette figlioli, sette,
di pane e miele, a chi li do?
Sette come le note,
Una canzone gli canterò.
E pioggia, e neve e gelo
e vola il fuoco insieme al vino,
e vanno via i pensieri
insieme al fumo su per il camino.
Avevano un granaio
e il passo a tempo di chi sa ballare,
di chi per la vita
prende il suo amore, e lo sa portare.
Sette fratelli, sette,
di pane e miele, a chi li do?
Non li darò alla guerra,
all'uomo nero non li darò.
Nuvola, lampo e tuono,
non c'e perdono per quella notte
che gli squadristi vennero
e via li portarono coi calci e le botte.
Avevano un saluto
e, degli abbracci, quello più forte,
avevano lo sguardo,
quelle di chi va incontro alla sorte.
Sette figlioli, sette,
sette fratelli, a chi li do?
Ci disse la pianura:
Questi miei figli mai li scorderò.
Sette uomini, sette,
sette ferite e sette solchi.
Ci disse la pianura:
I figli di Alcide non sono mai morti.
E in quella pianura
Da Valle Re ai Campi Rossi
noi ci passammo un giorno
e in mezzo alla nebbia
ci scoprimmo commossi.