Un parere sulla pirateria musicale (tratto da Le Monde)
Data: Martedì, 05 aprile @ 09:47:15 CEST
Argomento: La musica che ascolti su Radio Rebelde


La campagna pubblicitaria in favore dello scaricamento legale della musica ha scatenato una controversia di cui il manifesto del Nouvel Observateur "Liberate l@ musica!" ha dato la misura. Bisogna seguire Manu Chao, a favore della pirateria, o Renaud, contro?

Da un punto di vista strettamente finanziario, il dibattito sembra chiaro: piratando la musica si crea una mancanza di guadagno che minaccia prima l'industria discografica e poi gli artisti e la creazione musicale. L'appello alla gratuità sarebbe "demagogico" (Jean-Jacques Goldman) poichè mina le fondamenta di un settore che pretende di difendere (la musica per tutti). Invece niente in questo dibattito è semplice. Il primo passo del ragionamento, secondo cui la pirateria crea una mancanza di guadagno, non è nemmeno così evidente come apparirebbe.
Poichè lo scaricamento tra internauti, chiamato peer-to-peer (P2P), produce due effetti di direzione contraria. Riduce l'incitazione a pagare, ma favorisce la diffusione delle opere. Quest'ultimo effetto permette al consumatore di informarsi meglio e di apprezzare queste, aumentando la sua eventuale voglia di comprare un album.

In termini di prelievo obbligatorio si direbbe: il P2P riduce il tasso di imposta, ma amplia la base fiscale.

Secondo gli studi disponibili, sembra che l'importanza dell'uno o dell'altro fattore dipenda dall'età delle persone interessate. I giovani di meno di 25 si servono principalmente della rete per fare economia.

Quelli maggiori di 25 anni, al contrario, si ritrovano maggiormente nella seconda categoria dei consumatori, quelli che la Rete spinge a spendere. Per il momento le due forze sembrano compensarsi esattamente.

E' troppo presto per sapere se si conserva un effetto d'età invecchiando: i giovani, diventando più ricchi, compreranno a loro volta dei CD, o di generazione (cresciuti nella cultura della gratuità, i giovani non pagheranno mai dei beni che considerano come appartenenti a tutti). Ma si capisce perchè l'idea secondo cui la caduta delle vendite sarebbe oggi dovuta allo scaricamento illegale resta molto controversa.

La spiegazione più semplice per spiegare l'abbassamento delle vendite è un'altra: è legata alla fine del ciclo in cui i melomani hanno dovuto ricostituire da capo la loro biblioteca in vinile, in favore dei CD. E' possibile che il P2P abbia accelerato il processo. La maggior parte degli studi tuttavia rifiutano che ne sia la causa principale.

L'ambiguità degli effetti delle tecniche di riproduzione sull'industria musicale non è nuova. Già gli industriali si erano preoccupati che la radio dissuadesse dall'acquistare dischi, al punto di immaginare di vietare che la loro musica fosse passata in radio. Non gli servì molto tempo per rendersi conto che succedeva esattamente l'opposto.

Ugualmente, la commercializzazione dei lettori di cassette, dalla facile registrazione, ha fatto temere, un'altra volta, che i registratori avrebbero assassinato l'industria. Nemmeno stavolta è successo niente.

I "singles", i 45 giri, sono certamente scomparsi. Ma la vendita globale non ne ha sofferto, obbligando di fatto le majors a preoccuparsi maggiormente di cantanti capaci di registrare dei veri album, piuttosto che promuovere dei pezzi senza domani.

Ammettiamo tuttavia che questa volta sia diverso, anche se oggi non è provato, e che il P2P riduca le vendite di CD. Bisogna temere in questo caso per la stessa creazione musicale?

L'industria della musica, a immagine di molti settori in cui l'innovazione gioca un ruolo chiave, è strutturata in due gruppi: le majors da un lato e le etichette indipendenti dall'altra. Alle indipendenti, la ricerca di nuovi talenti; alle majors, la loro promozione. Una delle scommesse della Rete, che spiega l'ambiguità dei professionisti nei suoi confronti, è di modificare questa spartizione dei ruoli in una direzione che potrebbe essere più favorevole alle etichette indipendenti.

Il ruolo delle majors in effetti è ambiguo. Sicuramente spendono molti soldi per far conoscere degli artisti, ma in gran parte sono le loro stesse spese che contribuiscono alla crescita dei costi di promozione, di cui un effetto di è di escludere le etichette indipendenti.

"COSTI ENDOGENI"
Difendere le majors in nome delle spese promozionali che sostengono, è un po' come difendere Canal+ e TF1 [per noi: SKY] in nome dell'idea che solo loro possono pagare i diritti di ritrasmissione delle partite di calcio, dimenticando che sono le principali responsabili dell'aumento di questi diritti.

Si ritrova qui l'applicazione di un'idea conosciuta come la teoria dei "costi endogeni" (dovuta all'economista inglese John Sutton). Quando la tecnica permette di ridurre i costi di fabbricazione (ad esempio di un film, grazie alle camere digitali), o di ritrasmissione (di una partita, via cavo o satellite), la concorrenza tra gli operatori più potenti tende ad annullare il beneficio della nuova tecnica rincarando artificialmente i diritti di ingresso.

Così l'inflazione del salario delle stars o la moltiplicazione degli effetti speciali premettono ad Hollywood di conservare un monopolio che l'abbassamento dei costi di produzione potrebbe scalzare. Così l'innalzamento dei diritto impedisce alle catene indipendenti di mostrare il calcio in tv. Così l'aumento dei costi di promozione impedisce allo stesso modo alle etichette indipendenti di fare conoscere esse stese gli artisti che hanno scoperto.

In materia musicale, le majors hanno creduto di potersi liberare in questi ultimi anni, dalle etichette indipendenti, per accorciare i tempi di ammortamento di un artista. SEcondo gli esperti questa sarebbe un'altra ragione per cui hanno perso terreno: la qualità ne ha immediatamente risentito, spiegando così in parte la caduta delle vendite. Grazie alla Rete, anche se non bisogna giurarci, è possibile che le indipendenti vedano aprirsi una via più diretta di far conoscere i nuovi talenti.

Resta, infine, l'artista.
In un curioso ribaltamento delle posizioni, la libertà di scaricamento è a volte assimilata al neoliberismo. E' un'accusa che farebbero fatica a comprendere tutti coloro per i quali la Rete è l'espressione esattamente opposta di una controcultura, liberata precisamente dai circuiti commerciali.

L'EPOCA DEI SALTIMBANCHI
C'è tuttavia qualcosa di vero nella critica degli effetti paradossali della gratuità sulla commercializzazione delle opere. In un mondo commerciale sottoposto alla concorrenza dei supporti gratuiti, la remunerazione degli artisti deve avvenire allora con la commercializzazione dei "prodotti derivati". La pubblicità, per le radio; dei supplementi premium, per i giornali online; delle formule di abbonamento complesso, che legano ad esempio la musica a degli abbonamenti di telefonia mobile.... L'artista può insorgere: la sua opera scomparirebbe in un dedalo in cui essa finirebbe di essere la parte centrale. La pirateria lo obbligherebbe a barcamenarsi in un universo commerciale che lo riporta in parte ai tempi in cui dipendeva dai mecenati capricciosi.

Tuttavia, questa rivendicazione non è senza risposta. Perchè un musicista può dare dei concerti, così come gli scienziati sono insegnanti o i saggisti conferenzieri. In questo caso, il "prodotto derivato" della musica è il musicista stesso. Alcuni artisti come Prince non esitano a dare i propri cd a coloro che sono venuti ad ascoltarli sul palco. E' un paradosso ben conosciuto, ma che fatica ad essere compreso: L'era del digitale, che apre a priori la via alla smaterializzazione assoluta, potrebbe obbligare a tornare all'epoca dei saltimbanchi, dove bisogna guadagnarsi da vivere sui palcoscenici.

Non siamo ancora a questo punto, e tutto prova che un buon CD, come un buon libro, troverà ancora a lungo degli acquirenti. Ma internet presenta tanti "business models" che è preferibile esplorarli in tutte le loro sfaccettature e paradossi, prima di assimilare i giovani che scaricano musica per amore della stessa in delinquenti in potenza.

Daniel Cohen per "Le Monde" - 29.03.05

Ringraziamo Inti.



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