Il viaggio: la musica di Auschwitz
Data: Lunedì, 07 febbraio @ 15:49:18 CET Argomento: Diario di viaggio Ramblers
Il racconto dei nostri vagabondi pubblicato su l'Unità di oggi
La Musica di Auschwitz
"Fra due minuti, alla vostra destra, vedrete la stazione di Oswiecim ! "
L'autoparlante della carrozza bar attrae la nostra attenzione per una prima scarica
emozionale con quella che è stata la più grande vergogna del genere
umano dell'era moderna. Auschwitz, in tedesco, è lì a pochi chilometri
da questa stazioncina dove il cielo e la neve si fondono in un unico freddo colore.
Sarà la suggestione, sarà il gelo, ma i brividi ci pervadono il
corpo. "Ci siamo!" Venti ore di tradotta, da Brescia ad Auschwitz, per
ricordare, o meglio, per far conoscere a un migliaio di studenti provenienti da
varie provincie, la storia di questo campo di sterminio.
Il nostro viaggio in realtà è iniziato da Fossoli di Carpi, dove
c'era il più grande campo di concentramento italiano. Primo Levi partì
da lì.
Il convoglio arriva a buio inoltrato a Cracovia, città base per questa
spedizione. Non siamo soli, altri tre treni della memoria sono già arrivati
da un paio di giorni da Torino e dalla Toscana. Ci attende una bella e calda zuppa
di cipolle. È la prima volta che nessuno si lamenta. Rispetto, verso chi
sessant'anni fa fece lo stesso viaggio verso la morte. Anche se questo può
sembrare un po' retorico e ipocrita, oggi è giusto così.
Sveglia all'alba, colazione veloce e pullman destinazione Auschwitz I.
La popolazione di Oswiecim non gradisce molto questo tipo di turismo. Vorrebbe
dimenticare, più che ricordare. Forse perché in fondo in fondo l'antisemitismo,
da queste parti, non è mai scomparso del tutto. E nemmeno i russi sono
ben visti, dai polacchi, nonostante siano stati loro a liberare la Polonia, a
costo di grandi sacrifici; insomma, si fa veramente fatica a capire le ragioni
di questa voglia di dimenticare. La guida ci racconta una breve storia del campo
e poi infila nel mangianastri del pullman una
cassetta con la registrazione di una conferenza in cui Liliana Segre, una sopravvissuta
di Auschwitz, racconta la sua storia. Fuori c'è il gelo, nevica a tratti.
Anche dentro di noi, nonostante il riscaldamento a manetta, il gelo. Nessuno lacrima.
Sarebbe troppo retorico anche questo? Eppure nessuno fiata per quasi un'ora. Mentre
le parole che sentiamo sono pesanti come macigni. Metodo migliore per farci avvicinare
ad Auschwitz non avrebbe potuto trovarlo.
Il
parcheggio è pieno di pullman e di gruppi che avanzano verso il cancello
con la scritta "Arbeit macht frei". Passarci sotto è uno strappo
al cuore. Il lavoro non ha mai reso libero nessuno, qui dentro. Grottesca, infamante,
umiliante scritta. Ti fa chiedere anche se il lavoro abbia mai reso libero qualcuno.
Le Piramidi che tutti aspirano ad andare a vedere, prima o poi, hanno forse reso
liberi chi le ha tirate su? Boh. E' un vortice continuo di pensieri. Meglio pensare
di nuovo a quei disgraziati che loro malgrado hanno reso famoso questo luogo di
morte e fantasmi. Se qualcuno crede nell'al di là, non può non sperare
che Himmler, Hoss, Hitler e fino all'ultimo kapò, possano soffrire in etermo,
all'inferno, anche solo un decimo di quello che hanno sofferto un milione e centomila
fra bambini, donne, anziani in questo maledetto posto.
Il freddo ti taglia il fiato, il resto lo fanno questi mattoni rossi che prima
che arrivassero i nazisti erano caserme per i soldati polacchi. La cosa che colpisce
di più è la lucidità con cui il disegno criminale era messo
in atto. Niente veniva sprecato, nemmeno le ceneri che venivano vendute alle industrie
agrarie che le usavano come concime.
La nostra guida del campo è un omone sui settant'anni, parla un buon italiano
ma con tutti gli accenti sfalsati e questo rende ancora più enfatizzato
il suo racconto. Dice spesso, "gli hitleriani", con una voce dura che
sputa disprezzo, e quando dice "sterminio" sembra che siano passati
pochi mesi e non sessant'anni. Forse Auschwitz andrebbe visitato in solitudine
per sentirne i silenzi, cercare di catturarne la cupezza ma anche in tanti come
siamo noi, ha i suoi lati positivi. Essere in un gruppo che si accalca in questi
corridoi grigi e freddi ti butta addosso tutta l'oppressione metafisica e ti fa
sentire un po' bestia come forse si sentivano i deportati. I ragazzi delle superiori,
i veri protagonisti di questo viaggio della memoria sono i più attenti
e coinvoltiche abbiamo mai visto. Segno che non tutti i giovani, come qualcuno
vorrebbe farci credere, sono agnostici o menefreghisti. Anzi, durante tutto il
viaggio in treno era un continuo provare pezzi teatrali, leggere libri sulla Shoah.
Merito anche di stoici insegnanti che si oppongono con forza al revisionismo nei
programmi scolastici.
La visita è spossante, il pallidissimo sole non scalda, il vento ti taglia
quei pochi centimetri di pelle scoperti. I fili spinati sono un'immagine fortissima
e alla lunga diventano insopportabili. Vorresti strapparli e vorresti far saltare
tutto con la dinamite. Vorresti vedere campi di papaveri rossi o girasoli al posto
di questi edifici rossi e di queste baracche. Non si riesce a non sentirsi un
po' in colpa anche "solo per essere nati" rubando una frase a Liliana
Segre.
Ripassiamo sotto quella scritta e usciamo dal campo. Il pulmann n.3 ci aspetta
nel piazzale. La nostra visita finisce lì, il sound check ci aspetta. Gli
altri gruppi proseguono per Auschwitz II-Birkenau dove le baracche di legno sostituiscono
quelle in mattone e dove arrivavano i treni carichi di deportati. Noi in serata
suoniamo al palasport di Cracovia per tutti i partecipanti del viaggio. I Modena
City Ramblers torneranno a fare i pagliacci di sempre, gli studenti torneranno
a fare casino e ad odiare i propri insegnanti i quali torneranno a parlare della
riforma Moratti e così via. Vince la vita. Ma qualcosa, dentro ognuno di
noi, è cambiato per sempre.
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