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Un'interessante riflessione di Massimo Fini su Globalizzazione e Catastrofi
(postato da Vale)
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Globalizzazione e Catastrofi
di Massimo Fini
Lo Tsunami è stato un fenomeno naturale globale che ha inferto un duro colpo proprio
alla globalizzazione, come fatto e come concezione. Sul Foglio, Giuliano Ferrara
contesta questa interpretazione sostenendo che lo Tsunami ha colpito regioni "fra le
meno globalizzate" del mondo e proprio per questo ha avuto le conseguenze devastanti
che ha avuto. È vero il contrario. "Globalizzazione" non è lo sviluppo e la crescita
dell'attuale modello economico nei Paesi occidentali che hanno imboccato questa
strada da due secoli e mezzo, dalla Rivoluzione industriale, ma è l'esportazione di
questo modello nei mondi "altri", in quello che noi chiamiamo il "Terzo mondo". Ed è
questa globalizzazione contaminante che ha indebolito le popolazioni indigene (in
questo caso malaysiani, indonesiani, cingalesi, thailandesi e anche indiani) sotto
ogni punto di vista, rendendole, tra l'altro, anche più vulnerabili allo Tsunami.
Se un'onda di pari potenza si fosse abbattuta su quelle coste due o tre secoli fa il
disastro sarebbe stato di gran lunga minore, molti meno i morti, anzi forse non ci
sarebbe stato nessun morto. Per alcuni buoni motivi.
1) Perché ci sarebbe stata molto meno gente sulle coste, oggi sovraffollate per
sfruttare il turismo occidentale (o per dir meglio: per essere sfruttati dal turismo
occidentale). 2) Perché le mangrovie, oggi in gran parte abbattute per far posto
alle spiagge, avrebbero fatto da barriera all'acqua. 3) Perché capanne di paglia e
legno sarebbero state sicuramente spazzate via, ma il legno galleggia e al legno ci
si può aggrappare, mentre le strutture di cemento possono trasformarsi in una
trappola senza uscita e, se cedono, in proiettili mortali. 4) Perché non ci sarebbe
il problema delle infrastrutture dato che allora le infrastrutture non esistevano ma
gli indigeni vivevano lo stesso. 5) Perché infine, e soprattutto, la contaminazione
con la "way of life" occidentale, la globalizzazione appunto, ha profondamente
pervertito gli istinti vitali di questa gente.In altri tempi queste popolazioni del
mare avrebbero avvertito il pericolo con ampio anticipo, sarebbero state colte da
orrore al primo cenno del ritirarsi delle acque e avrebbero saputo come mettersi in
salvo. Invece molti di loro non hanno capito ciò che una bambina inglese di dieci
anni, curiosa di fenomeni naturali, sapeva e che peraltro è intuitivo: che come le
acque dell'oceano si ritirano, non per una marea conosciuta e periodica, la prima
cosa da fare è correre nella direzione opposta con tutto il fiato che si ha in
corpo.
La conferma di ciò che dico viene da quanto è successo alle isole Andamane. Le
Andamane sono un arcipelago di piccole isole, le più vicine all'epicentro del
terremoto verso Sumatra. Sulla parte, diciamo così, "civilizzata" delle Andamane (il
sette gennaio vi si doveva tenere addirittura il "Festival del turismo") i morti
sono stati 9.571 e i dispersi 5.801.
Sulle isole più piccole delle Andamane vivono anche alcuni popoli cosiddetti
"primitivi", ma che i tedeschi chiamano, più correttamente, "popoli della natura"
perché vivono allo stato di natura e in armonia con essa. Tribù che non hanno mai
accettato intromissioni, non solo degli occidentali ma anche degli indiani del cui
territorio formalmente fanno parte. Quando si presenta qualche seccatore lo
accolgono con archi e frecce e lo mettono in fuga. Hanno riservato questo
trattamento anche a un elicottero che, in questi giorni, tentava di atterrare, per
portare "aiuti", su una spiaggia dove, passata la buriana, i Sentinelesi - così si
chiama una di queste tribù - se ne stavano tranquillamente seduti. I pochi che sono
riusciti ad avvicinare gli Onga delle "Piccole Andamane" o gli Jarawa o i Grandi
Andamanesi della minuscola Strail Island o gli stessi Sentinelesi che vivono
nell'isola più remota dell'arcipelago, da cui il nome di North Sentinel Island (e
hanno potuto farlo solo accettando il rituale scambio di doni, perché per millenni
fra le popolazioni malaysiane e polinesiane lo scambio non poteva avvenire se non
nella forma del dono e del controdono) hanno descritto questi "primitivi" come miti,
affettuosi, sorridenti, esuberanti". La situazione è tale che lo stesso governo
indiano ha, intelligentemente, vietato, per legge, di prendere contatto con queste
popolazioni. Ogni tanto un funzionario del governo di Nuova Dehli si reca da loro,
in visita, compie il rituale scambio di doni e poi se ne va. Questi contatti molto
saltuari li accettano, ma, come ha scritto Viviano Dominici, "sono decisi a tenersi
lontani da tutti e ogni volta che qualcuno tenta di sbarcare nel loro piccolo mondo
loro lo respingono a frecciate".
Ebbene fra questi "primitivi", benché siano stati investiti dal maremoto con molta
più violenza dei più lontani indiani della costa, dei thailandesi, dei cingalesi,
non c'è stato nemmeno un morto. La ragione è molto semplice e la spiega una
responsabile della Croce Rossa, la dottoressa Namita Ali: "Sono più furbi dei
cosiddetti civilizzati: conoscono l'oceano, non costruiscono le abitazioni sulla
spiaggia ma sulle colline". E quelli che stavano sulle rive, per qualche loro
faccenda, appena hanno visto il mare ritirarsi sono scappati sulle alture.
Sono cose che dovrebbero far meditare. Invece mi pare che la grande macchina delle
sottoscrizioni internazionali, globali, sia presa soprattutto dall'ansia di
ripristinare al più presto la situazione di prima, di ricostruire, di ricreare quei
Paradisi artificiali, come se volessimo cancellare e rimuovere un incubo senza farsi
troppe domande sul perché lo abbiamo vissuto. E senza rendersi conto che la potente
onda di quel denaro potrebbe rivelarsi, alla lunga, più devastante di quella dello
Tsunami.