Alcuni ramblers ci hanno segnalato che il pezzo pubblicato dal Mucchio Selvaggio che avevamo inserito era incompleto. Rieccovelo ora per intero.
Stefano "Cisco" Bellotti - Io, vagabondo
di Federico Guglielmi
da Il Mucchio Selvaggio extra, n. 15 Autunno 2004
L'aspetto che forse emerge con maggior chiarezza dalla storia personale e musicale
di Cisco, nonostante i saldissimi legami con la sua terra, è la tendenza
al movimento: che si tratti di viaggi realmente compiuti in terre vicine o lontane,
di percorsi artistici o di voli con il cuore e la mente protesi verso (magnifiche)
utopie, non ci sono dubbi sul fatto che il trentaseienne emiliano non ami granché
la staticità, onorando in questo l'appellativo di rambler guadagnato
quando, nel 1992, divenne front-man della band della quale è tutt'oggi
uno dei cardini, il principale portavoce e soprattutto l'inconfondibile icona.
Cantante istintivo che con il tempo e l'esercizio ha guadagnato anche in tecnica,
e infaticabile trascinatore sul palco a dispetto di un fisico non propriamente
asciutto, Stefano è anche una persona piacevolissima, con la quale -
magari davanti a un pinta di buona birra irlandese - è facile perdersi
in conversazioni incentrate sulla politica, sullo sport, sul rock e sul folk,
sul cinema e la letteratura, sulle esperienze di ogni genere raccolte nel proprio
vagabondare. E questo è esattamente ciò che è accaduto,
nonostante l'assenza di alcol (troppo caldo!) e l'unico tema affrontato - seppur
aperto a numerose digressioni: la sua vita, dagli albori ai giorni nostri -
nelle quattro ore di intervista usate come base di queste undici pagine di dossier,
che raccontano a un buon livello di approfondimento il background umano/culturale
del Nostro e le tante, concitate vicende degli oltre dieci anni di carriera
ufficiale dei suoi Modena City Ramblers.
La
mia gente
1968-1991
"Sono nato a Carpi, vicino Modena, il 29 luglio del 1968, in una famiglia
operaia. Ai tempi mio padre Corrado lavorava nei cantieri che costruivano strade
e autostrade, e quindi era costretto a spostarsi spesso: in quel periodo, infatti,
i miei genitori e mio fratello Marco - di undici anni più grande di me
- abitavano presso Vicenza, ma vollero farmi nascere a Carpi perché siamo
carpigiani da generazioni. Essendo molto cagionevole di salute, il medico consigliò
di portarmi altrove: quando avevo sei mesi ci trasferimmo così a Berceto,
seguendo papà che era impegnato sulle montagne di Parma, e tutti i miei
malanni si risolsero. Restammo lì fino al 1971, quando rientrammo definitivamente
a Carpi: mio padre era diventato camionista e mia madre Ernesta fu assunta in
una maglieria, un settore industriale da noi floridissimo". La crescita
di Stefano si svolge dunque nella cittadina emiliana, senza lussi ma anche senza
difficoltà economiche, in un quartiere periferico che ha come centro
quattro palazzoni rossi; sono però abituali le visite ai parenti in campagna,
com'è naturale che sia per una famiglia fortemente legata alla propria
terra e alle proprie radici contadine: ambienti contigui che ovviamente esercitano
notevole influenza sul ragazzino, specie sul piano della coscienza e dell'orientamento
politici. "Nell'edificio più grande c'era la sezione del Partito
Comunista, fulcro della vita pubblica locale, e dunque ho vissuto in modo naturale
la politica e la presenza forte del Pci e de L'Unità: da bambino, la
domenica, vendevo il giornale porta a porta, e quando ho cominciato ad andare
in colonia e mi sono confrontato con realtà sociali differenti mi pareva
assurdo che esistessero posti dove la Festa de L'Unità, un punto fermo
della mia infanzia, non veniva organizzata. Ho molti ricordi, in questo senso,
molte immagini… dal volto di Berlinguer - una volta andai coi miei ad un
suo comizio a Firenze, ma c'era così tanta gente che non riuscimmo neppure
ad avvicinarci alla piazza dov'era stato montato il palco - a quello di Gramsci
fino a Lenin, anche se non conoscevo nessuno che esaltasse il "modello
sovietico": il nostro Comunismo è sempre stato quello emiliano,
quello di una regione in cui si sta bene sia a livello di servizi pubblici e
solidarietà e sia nel privato. Berlinguer, Gramsci, Lenin erano parte
della nostra storia quotidiana, proprio come la foto di famiglia attaccata al
muro di casa. C'erano poi i racconti dei parenti anziani, i nonni e gli zii:
le storie della Resistenza e dei partigiani, dalle quali ho imparato moltissimo…
per me "la canzone" per eccellenza era Bella ciao, che veniva persino
suonata dalla banda ai funerali. La politica, insomma, è sempre stata
un elemento essenziale della mia vita; fui colpito moltissimo anche dal rapimento
Moro, la maestra ci mandò addirittura a casa e per settimane i miei genitori
si affannarono a spiegarmi la situazione e a chiarirmi che le Brigate Rosse
non avevano nulla a che spartire con il nostro Comunismo. In seguito ho logicamente
perfezionato la mia visione, non limitandomi ad approfondire i temi o a frequentare
le manifestazioni, ma cercando di prendere posizione in ogni attività,
compresa la musica da ascoltare o i posti dove andare".
Al di là dell'impegno ancora in nuce, la gioventù di Stefano è
segnata da altri interessi: non la scuola, che peraltro non costituisce un dramma
("pur non amandola troppo me la sono sempre cavata benino, senza intoppi,
tanto che l'unica bocciatura della mia vita è stata all'esame per la
patente di guida; mi piacevano storia e geografia e, più tardi, anche
letteratura italiana: la mia insegnate delle Superiori era molto brava ed è
stata lei a farmi apprezzare le buone letture che fino ad allora avevo trascurato.
Ci andavo comunque volentieri per via delle ragazze") ma, in primis, il
calcio. "Fino a sedici anni ho avuto in testa quasi solo il pallone. Sono
tifoso del Bologna, che andavo a vedere allo stadio con mio padre, e ho cominciato
prestissimo a giocare, in porta e in altri ruoli: da grande volevo diventare
calciatore. Ho fatto agonismo in una società di Carpi per dieci anni,
e nonostante nessuna squadra si sia mai interessata a me o ai miei compagni
prendevamo la faccenda molti sul serio; le mie settimane erano scandite dagli
orari degli allenamenti e delle partite". È in tale contesto che
viene coniato il soprannome Cisco, dal curioso - e appropriato, con il senno
di poi - sapore latino: quando giocava in strada con gli altri ragazzi, il futuro
rambler indossava una maglietta con la scritta San Francisco, via via scomparsa
per usura fino a lasciare le ultime cinque lettere. "Alle medie ho però
sviluppato una seconda passione, la musica, alla quale - al di là del
fatto che mia madre, da brava ex mondina, a casa cantava sempre - ho iniziato
a interessarmi grazie alle cassette di mio fratello - che ascoltava solo artisti
italiani, soprattutto cantautori: Guccini, Dalla, De Gregori, De Andrè,
Jannacci… - e tramite il padre di un mio amico che mi ha introdotto ai
Beatles, la prima band rock ad avermi colpito seriamente. All'epoca avevo circa
undici anni, ma già da un po' suonavo ad orecchio - non ho mai imparato
a leggere il pentagramma - una pianola Bontempi regalatami da mia madre…
a lei non sarebbe dispiaciuto se mi fossi iscritto al Conservatorio e il mio
professore di musica diceva che ero abbastanza portato, ma in terza media sono
entrato in conflitto con lui e, per fargli dispetto ho scelto un'altra strada."
Nel 1982 Cisco entra così alle Superiori, in un istituto professionale
che prevede, dopo tre anni, un diploma di Elettricista Elettromeccanico. "Quella
professione non mi attirava proprio, e quindi ho preferito trovarmi subito un
altro lavoro: per qualche mese sono stato apprendista fabbro, montavo portoni
e cancelli… mi distruggeva, e per di più ero pagato malissimo. Poi
venni assunto in una maglieria, alle macchine, dove guadagnavo il doppio e facevo
metà della fatica. A differenza dei miei coetanei, quindi, avevo in tasca
un po' di soldi che spendevo tutti in dischi… alcuni storici e altri, devo
ammetterlo, di pessimo gusto. A sedici anni mi sono innamorato prima dei Deep
Purple e poi dei Led Zeppelin, e c'era un mio compagno che mi prestava dischi
e cassette: ero 'preso' dal rock classico, meglio se un po' duro… cose
tipo One More For The Road dei Lynyrd Skynyrd. Mi fu anche chiesto di cantare
in un gruppo metal, ma l'idea non mi interessava nonostante mi fossi scoperto
bravino: merito del mio professore di inglese delle Medie, che insegnava cantando
Beatles, Dylan e tradizionali americani con chitarra e armonica. Verso metà
degli '80 ho scoperto Muster Of Puppets dei Metallica, un album eccezionale
che apprezzo tuttora, e quindi Clash, Sex Pistols, U2 , i primi Cult e le grandi
opere rock stile Tommy, Quadrophenia, The Wall, mentre ho sempre trovato il
progressive troppo masturbatorio. Con gli amici - ragazze ne giravano poche,
non eravamo tipi trendy - andavamo a ballare al Mascotte o al Corallo, dove
c'era musica alternativa, dal metal alla new wave." L'anno-chiave per il
Cisco-musicista è però il 1987, quando assieme ad un ragazzo che
abita nell'appartamento sotto il suo allestisce una band senza pretese ("lui
era un chitarrista in erba, ma si capiva che era piuttosto dotato; visti i risultati
pessimi abbiamo lasciato perdere, ma mettere piede in una sala prove è
stata una bella esperienza") e soprattutto quando per caso si imbatte nei
Pogues. "Mi è capitato sotto gli occhi il video-clip di If I Should
Fall From Grace With God ed è stata una folgorazione, tanto che sono
corso subito ad acquistare l'album Dopo mi sono messo a cercare altra musica
più o meno di quel genere: i Waterboys, i Men They Couldn't Hang…
chiunque mischiasse rock, punk e folk irlandese, mentre agli artisti tradizionali
sono passato in un secondo tempo… ai Pogues devo anche l'esplosione della
mia curiosità per l'Irlanda." E sempre del 1987 è un altro
episodio importate della formazione del Nostro, una vacanza nel sud della Francia
con la carovana del Circo Medrano. "Marco, un mio carissimo amico, aveva
i genitori che lavoravano al circo, e lui ogni estate li raggiungeva dovunque
fossero; quella volta mi ha portato con lui ed è stata una storia splendida:
mi ha fatto conoscere un mondo diverso dal mio, più nomade ma con un
pronunciatissimo senso di "grande famiglia". Il resto del 1987 e oltre
metà del 1988 vanno invece via con il Servizio Militare. "Pur senza
raccomandazioni sono stato assegnato non lontano da casa, nel reparto di Artiglieria
Contraerea presso l'Aeroporto di Villafranca di Verona. Non so bene perché,
pur avendoci pensato, ho deciso di non fare l'obiettore... ho buttato un anno
di vita, visto che avevo anche un incarico stupido, bighellonando tra Verona
e Carpi".
Qui, smessa la divisa, nasce il Cisco viaggiatore. Pur conservando il suo posto
in maglieria, indispensabile per finanziare le proprie aspirazioni, il ventenne
carpigiano intraprende infatti una serie di "pellegrinaggi" cultural-musicali
attraverso l'Europa. "A capodanno del 1989 sono stato per cinque/sei giorni
a Londra con gli amici, riuscendo a spendere solo in dischi un milione di vecchie
lire. In estate, con l'InterRail, siamo finiti in Svezia, Norvegia, Danimarca,
e poi a Parigi… da lì volevamo prendere il treno per l'Irlanda,
ma eravamo molto stanchi e abbiamo preferito il mare, a Barcellona. Nel 1990
abbiamo organizzato un altro giro con due macchine in Inghilterra, Scozia e
Irlanda, ma avendo finito anzitempo i soldi siamo stati costretti a saltare
l'ultima tappa. Sono riuscito finalmente ad arrivare in Irlanda nell'estate
del 1991, sempre con il mio amico Marco, e quello è stato il viaggio
che mi ha cambiato la vita: tornato a casa sono stato sei mesi con la valigia
pronta sul letto vuoto di mio fratello - che, essendosi intanto sposato, stava
ormai per conto suo - per fuggire alla prima occasione. Non ne potevo più
della maglieria e volevo cambiare, ero mentalmente in bilico. A capodanno sono
così tornato in Irlanda, da solo, per provare a gettare le basi per vivere
lì, fregandomene del mio inglese maccheronico." La trasferta, almeno
in ottica di emigrazione, non è però soddisfacente, e a Cisco
non resta che rientrare a Carpi. Mai avrebbe immaginato che, di lì a
pochi giorni, avrebbe trovato la sua Irlanda a due passi da casa… o, meglio,
che la sua Irlanda avrebbe trovato lui.
Celtica Patchanka
1992-1998
"Doveva essere il febbraio del 1992 quando il mio solito amico, Marco,
venne di corsa a chiamarmi al bar perché al Kalinka, un locale di Carpi,
suonava un gruppo dedito alla musica irlandese. Mi precipitai lì con
la bicicletta e c'erano questi sette/otto personaggi; avevo già visto
due o tre di loro - Albertino, Giovanni e forse Albertone - nel luglio del 1991
alla data dei Pogues di Sant'Ilario, quando fuori dal posto del concerto facevano
i busker proponendo i pezzi di Shane McGowan e compagni con una fisarmonica,
una chitarra e addosso una splendida maglia con la bandiera d'Irlanda, ma della
loro esistenza come Modena City Ramblers non sapevo proprio nulla. Dopo la terza
o quarta birra ho cominciato a saltare sotto il palchetto, cantando tutti i
tradizionali che avevo imparato a furia di ascoltare Chieftains, Dubliners e
Christy Moore; così, a un certo punto, mi hanno invitato a salire per
The Wild Rover, e io sono stato entusiasta di farlo... una cosa alla The Commitments
di Alan Parker, uno dei miei film preferiti - il cinema è sempre stato
una mia passione - assieme a Local Hero. Alla fine ci siamo fermati a chiacchierare,
e loro mi hanno chiesto di prepararmi qualche altro brano per futuri "live".
Ho provato If I Should Fall In Grace With God, che poi ho eseguito, con The
Wild Rover, in altre circostanze." Nulla di strano, poiché in quel
periodo di "apprendistato" i Modena City Ramblers non sono un ensemble
convenzionale ma una compagnia aperta, con alcuni membri (più o meno)
fissi e altri occasionali: una specie di collettivo votato alla propaganda del
folk dell'Isola Verde che esiste dall'inizio del '91 e che ha come fulcri il
fisarmonicista Alberto Cottica, il chitarrista Giovanni Rubbiani, il cantante
Alberto Morselli (tutti già insieme nei Lontano da dove), il più
anziano polistrumentista Luciano Gaetani (nei '70, a Roma, aveva guidato i Roisin
Dubh, che con il loro folk-rock celtico in chiave barricadiera avevano raccolto
curiosità e consensi), il flautista Franco D'Aniello e il bassista Massimo
Ghiacci (ex Plutonium 99).
"Il 1 maggio Luciano, che ai miei occhi appariva come il capo, mi invitò
a casa sua per parlare. Mi chiese se fossi interessato a entrare in pianta stabile
nella band e io ne fui piuttosto stupito: per la mia dichiarata imperizia e
soprattutto perché loro avevano già un cantante. Appresi così
che Albertone preferiva le ballate e non amava gli episodi duri e veloci, dei
quali mi sarei invece potuto occupare io. Accettai, e divenni un rambler effettivo".
In quel 1992 sempre più concitato sotto il profilo live, che ha come
momento-clou la "spalla" ai Pogues a Modena, i ragazzi decidono di
allargare i propri orizzonti, accostando ai classici irlandesi composizioni
legate alla loro Emilia e - sulla scia della bufera appena esplosa di Tangentopoli
- alla canzone politica ("Il primo pezzo che provammo fu Bella ciao, e
per me si chiudeva un cerchio"). In parallelo, la volontà di mettere
ordine in una line-up troppo caotica ("In cantina così come ai concerti
vigeva la regola del 'chi vuole venire bene e chi non vuole fa lo stesso', determinando
problemi pratici non indifferenti") porta a indire una riunione plenaria
del giro Ramblers, alla quale è richiesta la presenza solo di chi è
intenzionato a fare sul serio; all'appello rispondono in nove, cioè i
sei "cardini" più Cisco, il violinista Marco Michelini e la
bodhrànista/corista Vania Buzzini: sono loro che nell'aprile 1993 approntano
il demo Combat Folk ("titolo per noi emblematico: i Clash e le radici"),
con quattro tradizionali irlandesi strumentali, tre cover punkizzate (Contessa
di Paolo Pietrangeli sulla melodia di Old Man Drag dei Pogues, Bella ciao e
Fischia il vento) e due brani autografi, l'ipnotico Ahmed l'ambulante (il testo
è una poesia di Stefano Benni) e l'incazzatissimo Quarant'anni ispirato
alle vicende di Tangentopoli, impietoso ma realistico ritratto della Prima Repubblica
dotato del carisma dell'inno. "Ai tempi, essendo più giovane e meno
colto di tutti gli altri, seguivo tutto quello che dicevano loro a livello sia
musicale che di testi, divenendo comunque via via più propositivo. Il
nastro fu registrato in diretta e velocemente, tanto che gli strumentali - in
origine non previsti - furono incisi solo perché erano rimaste alcune
ore libere: eravamo naïf, ma sapevamo bene quello che volevamo. Lì
abbiamo conosciuto Kaba Cavazzuti, che per caso aveva sostituito il suo socio
dello studio Esagono di Rubiera dove eravamo arrivati su consiglio degli amici
Gang, e con lui si instaurò subito un gran feeling." Bella ciao
e Quarant'anni sono affidate all'ancora acerbo ma già autorevole Cisco,
la cui voce è in stimolante dualismo con quella profonda ed enfatica
di Morselli contribuendo a rendere i Ramblers uno dei gruppi emergenti più
chiacchierati: allo scopo servono esibizioni sempre vigorose ed alcoliche spesso
organizzate fuori dalla regione natia, gli incoraggiamenti della critica, il
passaparola e il rapidissimo esaurirsi delle millecinquecento copie della cassetta.
Grazie ai compagni che gli hanno fissato un piccolo "stipendio", integrato
per alcuni mesi con un misero sussidio di disoccupazione ("mi faceva sentire
molto irlandese"), Cisco si è intanto licenziato dalla maglieria.
"Mi sono impegnato a cercare di colmare la distanza culturale che avvertivo
tra me e loro. Ho letto un mucchio di libri, ho studiato musica comprando anche
una chitarra e ho coronato un mio piccolo sogno andando a lavorare da Tosi Dischi,
un negozio di Carpi che tanto aveva contribuito a formare i miei gusti".
Nel mentre, la bella esperienza di Combat Folk porta Cavazzuti a proporre ai
Nostri la produzione gratuita di un master, da cedere su licenza per stampa
e distribuzione a una di quelle etichette indipendenti che in quegli anni, resi
piuttosto vivaci dal proliferare delle posse e dai riscontri ottenuti da Gang,
Mau Mau o Africa Unite, operavano in Italia; la spunta la Helter Skelter di
Roma, che attraverso il sottomarchio X pubblica nel marzo del 1994 Riportando
tutto a casa, caratterizzato dalla citazione dylaniana del titolo (traduzione
fedele di Bringing It All Back Home) e da una geniale copertina dove sono ammassati
oggetti che sintetizzano la storia personale degli otto musicisti (se n'è
andata Vania Buzzini, che è però accreditata come ospite). "Per
il nostro vero esordio c'è stata molta collaborazione nel songwriting.
La prima cosa che ho scritto, insieme ad Albertino, è stata I funerali
di Berlinguer, nella quale sono anche citati i soprannomi di alcuni miei parenti,
e sono mie anche certe frasi dell'adattamento in dialetto di The Great Song
of Indifference di Bob Geldof, che non ci convinceva perché troppo 'svaccata'
e fu inserita solo per le pressioni di Kaba. Il dialetto è stato importante
dall'inizio, specie per me che lo parlo più degli altri. Abbiamo preso
a utilizzarlo sull'onda dei Mau Mau, che cantavano in piemontese: noi ci siamo
comportati nello stesso modo perché non volevamo abbandonare la nostra
'lingua madre'. Comunque non abbiamo pretese filologiche, anche se cerchiamo
di evitare le castronerie: ci piace mantenerlo vivo, magari anche traducendo
termini italiani che prima non esistevano. Dal punto di vista dello stile stavamo
già cambiando: se prima eravamo monoliticamente Pogues, in noi iniziavano
ad infiltrarsi Les Negresses Vertes e Mano Negra. Il disco è pienamente
rappresentativo di ciò che eravamo allora, e ne eravamo soddisfatti al
100%". Oltre a recuperare in nuove versioni Quarant'anni, Bella ciao, Contessa
e Ahmed l'ambulante, l'album contiene almeno altri due episodi fondamentali
dei Ramblers: la splendida canzone d'amore per l'Irlanda In un giorno di pioggia
("era stata scartata: fui io a spingere perché entrasse in scaletta")
e l'autoironica e malinconica Delinqueint ed Mòdna, entrambe cantate
da Morselli così come le intense ballate Canto di Natale e Ninnananna;
a Cisco toccano Quarant'anni, Bella ciao, il resto delle tracce in modenese
(la parte "punk" de I funerali di Berlinguer, The Great Song of Indifference
e Tant par tachèr) e l'incalzante Morte di un poeta, composta da Giovanni
Rubbiani per il da poco scomparso Helno dei Les Negresses Veters. Il successo,
seppur ristretto all'area alternativa, è immediato: recensioni più
che lusinghiere, duemila esemplari venduti senza alcuna promozione, un accordo
di booking con la neonata Mescal di Valerio Soave ("Credo sia stato Ligabue,
all'epoca suo socio, a parlargli di noi; quando venne a conoscerci e scese dalla
sua BMW pensammo al solito manager-pappone ed eravamo tentati di lasciar perdere,
ma lui si dimostrò una persona squisita. Infatti siamo ancora con la
sua agenzia, alla quale fummo i terzi a legarci dopo La Crus e Massimo Volume")
e un contratto con la PolyGram, che - evento più unico che raro - accetta
persino di ristampare Riportando tutto a casa.
"Non volevamo che, con il cambio di etichetta, il disco morisse. Valerio
fece capire quanto la faccenda fosse per noi importante, e così la PolyGram
non fece obiezioni. Anzi, il presidente Stefano Senardi ebbe l'idea di arricchirlo
con un inedito da incidere insieme a Bob Geldof, e in quattro e quattr'otto
fu fissata una session all'Esagono". La seconda edizione di Riportando
tutto a casa, con Delinqueint ed Mòdna come singolo apripista ("una
scelta che non ho mai condiviso: troppo naïf e soprattutto troppo Mau Mau")
vede la luce a novembre, poco dopo l'apparizione alla "Biennale dei Giovani
Artisti del Mediterraneo" in quel di Lisbona e l'uscita de I disertori,
cd-tributo a Ivano Fossati per il quale il gruppo ha riarrangiato Gli amanti
d'Irlanda ("l'abbiamo fatto essenzialmente per stima nei confronti dei
responsabili del progetto, ma non siamo mai stati granché contenti del
risultato"): il pezzo aggiunto è Il bicchiere dell'addio, esilarante
e frenetica drinking song in italiano e inglese scritta da Giovanni e cantata
in tre ("Geldof si calò alla grande nel ruolo, ci divertimmo un
casino e gli esiti furono ottimi. Valerio ci raccontò che mentre accompagnava
Bob all'aeroporto lui gli disse 'cazzo, mi avete fatto venire fino in Italia
per suonare con un gruppo che sembra i Pogues'. Per noi, il più gradito
dei complimenti"), che certifica dell'ingresso in line-up del batterista
Roberto Zeno. Per correttezza e per scongiurare accuse di speculazione, i Ramblers
regalano uno speciale singolo con Il bicchiere dell'addio a chiunque si presenti
da loro con il cd della Helter Skelter.
Per la primavera del 1995 l'album è in ben 25.000 case, e in una piccola
parte di esse finisce anche il Tributo ad Augusto della Cgd contenente L'atomica
cinese ("Nessuno di noi è mai stato fan dei Nomadi, ma con Daolio
sentivamo parecchie affinità: avevo chiesto io a Valerio di dare la nostra
adesione se qualcuno avesse organizzato un ricordo di Augusto. Abbiamo scelto
L'atomica cinese per il suo valore concettuale e perché si prestava bene
ad un nostro adattamento"). Il resto dell'anno scorre fra incontri ("Nelle
note di Combat Folk avevamo collocato una frase estratta da un monologo di Paolo
Rossi, e tramite conoscenti gli demmo il nastro. Quando lui fece lo spettacolo
del Circo ci invitò due o tre sere"), la partecipazione con Bella
ciao al cd Materiale resistente voluto da Ferretti e Zamboni dei C.S.I. (e all'happening
di presentazione del 25 aprile a Correggio), attestai di stima, concerti e -
dato che ogni medaglia ha due facce - problemi, che si trascinano fino al termine
dell'estate sfociando nelle definitive dimissioni di Albertone. "È
un lupo solitario e faticava a mettersi in discussione all'interno della band:
dal mio ingresso al 1995 se n'era andato almeno sei volte, e ogni volta - dopo
discussioni e dibattiti tra noi - lo avevamo convinto a rimanere. Credo che
la sua voce fosse molto bella e particolare, e che assieme alla mia e alla nostra
musica costituisse qualcosa di unico, ma caratterialmente non era un tipo facile
e quindi aveva scazzi un po' con tutti. Non so come la vedesse lui, ma per quanto
mi riguarda il nostro rapporto è stato solo in minima parte conflittuale:
lo considero uno che mi ha aiutato ad imparare il mestiere che faccio ora, ma
ritengo anche di essergli stato di sostegno vista la sua timidezza sul palco.
Sul piano artistico le cose erano compatibili, e mi dispiace che la relazione
con lui sia l'unica che abbiamo perso: con tutti gli altri fuoriusciti dalla
formazione, infatti, ci ritroviamo, saltuariamente o continuativamente. Albertone
ha vissuto alla sua maniera i Ramblers, ha interiorizzato e analizzato la faccenda
in base alle sue convinzioni e questo ha purtroppo chiuso le porte".
La forzata rinuncia ad Albertone crea qualche squilibrio nell'ensemble, fino
ad allora perfettamente assestato, specie nell'ottica del secondo album verso
il quale i Nostri sono già proiettati: c'è da decidere come andare
avanti, e c'è da farlo in fretta. "Nei panni di unico front-man
ho avuto per un attimo un po' di paura, ma le prospettive generali comunque
incoraggianti mi hanno tranquillizzato: la mia filosofia era di prendere le
cose come venivano, senza paranoie. Giovanni e Albertino avrebbero voluto proseguire
con le due voci, provammo anche alcune ragazze, ma non si trovava nessuna persona
adatta; fu a quel punto che presi in mano la situazione e dissi agli altri che
provare a continuare solo con me non avrebbe potuto causare gravi danni: in
fondo dal vivo stavo già cantando alcuni nuovi pezzi e tutto funzionava.
Li convinsi e a fine ottobre, ci richiudemmo all'Esagono, coinvolgendo nelle
registrazioni alcuni amici". Gli amici non sono gente qualsiasi: c'è
Paolo Rossi, che regala alcuni interventi nelle febbrili Clan Balieue e Le lucertole
del folk e in quella metafora della vita che è la popolaresca e frizzante
La fòla dal Magalas; c'è Mara Redeghieri degli Üstmamò,
che fa lo stesso ancora in Clan Balieue, nell'agrodolce Santa Maria del Pallone
e nella delicata, evocativa Al Dièvel; c'è Mario Severini dei
Gang, che con il fratello Sandro alla chitarra divide con Cisco le strofe di
un'energica, appassionata cover de La locomotiva di Francesco Guccini, un altro
inno politico ("essere in studio con Marino è stato un sogno: ero
lì con gli occhi lucidi, come un bambino, a studiare quello che faceva");
e ci sono altri ospiti "minori" ma sempre graditi, a ribadire l'ideale
di un'unità affettuosa insito nel titolo La grande famiglia. Una seconda
prova che ribadisce, magari con meno epicità ma forse con maggior brio,
i discorsi del debutto, con ulteriori, travolgenti, folk-punk (la title track
e La banda del sogno interrotto, ode alla Sicilia sana), ballad ispirate a racconti
di Resistenza (L'unica superstite), ad Albertone (La strada), all'Irlanda (Canzone
dalla fine del mondo) e alla propria identità (La mia gente), medio-tempo
che trattano di Calcio (Santa Maria del Pallone), della Lega (Giro di vite)
e del fascino di essere busker (Il fabbricante dei sogni) più brevi interludi
etnici come L'aquilone dei Balcani e il medley La mondina/The lonesome Boatman.
"Ci premeva parlare delle persone che avevamo via via conosciuto e con
le quali si stavano instaurando rapporti stretti, dei locali dove andavamo a
suonare e delle osterie dove eravamo invitati a cena; insomma, quasi un concept
sulla collettività e sul nostro mondo. Sotto il profilo strettamente
compositivo ero ancora un po' indietro, collaboravo ma ero concentrato soprattutto
sulle mie nuove responsabilità di cantante unico. Però condividevo
tutto, anche perché io non sono un interprete: per cantare ho bisogno
di sentire ogni singola parola, altrimenti non se ne fa nulla".
Nel marzo del 1996, quando La grande famiglia è da un mesetto nei negozi,
prende il via il nuovo tour senza Gaetani e Michelini: al loro posto ci sono
Massimo Giuntini e Francesco Moneti, entrambi degli aretini Casa del Vento.
"Avevamo stabilito di licenziarci dalle nostre occupazioni normali perché
il gruppo era ormai una faccenda seria: una scelta un po' pesante da accettare,
perché eravamo tutti molto legati al nostro modo un po' 'cazzone' e burlonesco
di essere i Modena City Ramblers, ma la perdita della parte ludica era compensata
dall'acquisto di una più professionale. I soli a non sentirsela furono
Luciano e Marco, e benché rammaricati non potemmo dar loro torto: lavoravano
rispettivamente in banca e come psicologo, e il sacrificio sarebbe stato eccessivo.
Così attingemmo nella Casa del Vento, che già da alcuni anni suonavano
musica simile alla nostra: con noi venne anche il loro leader Luca Lanzi, che
fu ingaggiato come tour manager". Le oltre 40.000 copie vendute e le folle
che prendono parte ai riti catartici dei concerti (compreso quello del 1 maggio
a Piazza S. Giovanni, a Roma) testimoniano un successo clamoroso, replicato
in autunno nella decina di date con Paolo Rossi ("ci divertimmo da matti,
e Paolo sembrava proprio uno di noi"). In mezzo, una pausa che per Cisco
è molto più di un'occasione di riposo. "In pratica giravamo
come trottole da quattro anni, e avevamo bisogno di staccare la spina. Decisi
di farlo nella maniera più radicale, e per tutto il mese di settembre
ho battuto in lungo e in largo la Patagonia, completamente da solo. Mi spostavo
in treno, in autobus, in nave, cercando le sensazioni e le emozioni dei libri
di Sepúlveda, di Marquez, di Chatwin; è stato il viaggio più
bello della mia vita e al rientro a casa ero ritemprato e più che mai
fiducioso in me e nei miei soci". E un'altra memorabile trasferta, ma per
tutti i componenti, è quella consumata in dicembre, quando i nostri si
recano nel Sahara a suonare per i profughi locali ("Cinque giorni di autentica
magia nelle tende del deserto, che rafforzarono ancor più la nostra intesa
e la nostra determinazione").
È una compagine animata da stimoli diversi, quella che a inizio '97 avvia
al lungo processo evolutivo che nove mesi più tardi si traduce in Terra
e libertà, immancabilmente influenzato dalle inedite esperienze raccolte
in strada. "Ho visto un altro mondo e volevo in qualche modo farlo rivivere
nella musica e nel lavoro dei Ramblers; il mio intento era lo stesso di Alberto
e Giovanni, che avevano visitato Messico e Cuba. In quel periodo nei Ramblers
si sviluppò un nuovo equilibrio: dovevamo convincere i compagni che non
avevano compiuto il nostro percorso della possibilità di fare le nostre
cose in un'altra forma, con altri modi e con un altro immaginario, quello ispanico-americano,
ma non ci furono problemi. Era il primo album che affrontavamo 'da professionisti',
e ci imponemmo una regola: per sei mesi ci incontravamo in sala prove tre o
quattro volte la settimana, otto ore al giorno, per elaborare assieme canzoni
e suono. Fummo estremamente prolifici, tanto che ci trovammo con una quarantina
di pezzi; scoppiarono però anche frizioni tra Alberto e Giovanni, ed
io dovetti fungere da ago della bilancia: mi assunsi dunque il compito di scremare
il materiale e probabilmente commisi anche qualche errore... col senno di poi,
ad esempio, sarebbe stato il caso di eliminare Don Chisciotte e Cuore blindato,
che pur non essendo in sé malvagie non aggiungono nulla alla scaletta
e la rendono un po' prolissa. Inoltre, in generale, avremmo probabilmente dovuto
'spiegare' il disco con qualche nota nel libretto, perché non tutti hanno
capito i vari collegamenti e dove volessimo andare a parare". Troppo esteso
e troppo criptico oppure no, Terra e libertà - l'omaggio è ovviamente
all'omonimo film di Ken Loach - è un coraggioso, riuscito tentativo di
scrollarsi di dosso la pur lusinghiera etichetta di "Pogues emiliani"
attraverso il ricorso a riferimenti più spiccatamente latini, senza peraltro
rinnegare la dottrina combat-folk sulla quale la band ha edificato la propria
fama: ecco così le grintose e sanguigne Macondo Express, Il ritorno di
Paddy Garcia, Il ballo di Aureliano, Transamerika e Cent'anni di solitudine
accanto alle soffici e avvolgenti Remedios la bella, Qualche splendido giorno,
Lettera dal fronte e L'amore ai tempi del caos, con le convulse L'ultima mano
e Danza infernale (due storie di mare), l'ipnotica Radio Tindouf (stupenda eredità
del Sahara) e la strumentale Marcia Balcanica (un titolo, un programma) a dar
luogo ad interessanti divagazioni. "Al concetto del disco hanno contribuito
le chiacchiere con Luis Sepúlveda, Paco Taibo o Daniel Chavarria, conosciuti
sempre nel 1997 grazie ai festival di letteratura, mentre sul piano musicale
il modello erano i Mano Negra di Manu Chao: non eravamo certi di poterci destreggiare
con quelle cadenze così differenti, ma volevano ad ogni costo provarci.
Nel complesso, Terra e libertà - a mio avviso il nostro capolavoro, pur
non essendo rappresentativo come il primo - incarna il momento della nostra
presa di coscienza, del nostro essere diventati meno giocherelloni e più
adulti".
Qualche fan è abbastanza disorientato dal cambiamento, ma i Ramblers
non si scompongono. Rientrati in ottobre dalla Bolivia, dove si sono esibiti
nel contesto delle celebrazioni per il trentennale dell'assassinio del Che (a
luglio erano stati a Gijon, in Spagna, invitati alla Semana Negra da Taibo),
i ragazzi si imbarcano in una tournèe nei palazzetti che non consegue
i riscontri auspicati, anche se le presenze non deludono e le vendite di Terra
e libertà non calano rispetto al passato; e a incupire gli animi arriva
poi, nonostante le 100.000 persone assiepate in piazza, un concerto a Cuba assieme
ad artisti locali organizzato a dicembre da Rifondazione Comunista ("eravamo
una carovana di quaranta individui che si spostavano tutti assieme, una confusione
pazzesca, e poi c'era anche qualche tensione interna tipo quelle degli ultimi
mesi con Albertone"). Per ritrovarsi, nel 1998, l'ensemble riparte in tour,
questa volta nei club: sui volti riappaiono i sorrisi, che divengono smaglianti
a ottobre quando al Sisten Irish Pub di Novellara viene registrato Raccolti,
album acustico con quindici "classici" e tre inediti (Notturno Camden
Lock, A gh'è chi g'a' e La fiola dal paisan). "Cominciavamo un po'
tutti a subire la dimensione rock, ma soprattutto a me dava fastidio che parte
del nostro pubblico non avesse capito Terra e libertà, considerandolo
una specie di corpo estraneo. Per dimostrare che non era affatto così,
e che al di là dei colori e delle sfumature diverse non esisteva uno
stacco netto tra i primi due album e l'ultimo, proposi di incidere un live sullo
stampo di Music At Matt Molloy's, un celebre disco irlandese, prestando particolare
attenzione a riarrangiare in chiave 'vecchi Modena' i brani più recenti.
Abbiamo poi scelto il meglio delle quattro serate, a ognuna delle quali ha assistito
un centinaio di invitati, traendone un disco di settanta minuti" . Pubblicato
in dicembre, Raccolti ha come prevedibile appendice una decina di date teatrali
- incentrate sulle ballate ma non prive di aperture "punk" - a cavallo
tra gennaio e febbraio 1999, senza il dimissionario Giuntini ma con Gaetani
nei panni dello special guest: dieci estratti dalle tappe di Rimini e La Spezia,
tra le quali lo strumentale altrove irreperibile Richard Dwyer's Set e L'atomica
cinese, finiranno in Il resto raccolto, cd in mille esemplari disponibile solo
presso il neonato fan club e ai concerti.
"Poiché il nostro spettacolo abituale non era adatto ai teatri,
ne abbiamo inventato uno apposito, con una scenografia da pub. Il guaio è
che la gente voleva ugualmente ballare e saltare, anche se noi avevamo concepito
un tour 'da ascolto'".
Altri
Mondi
1999-2004
Nella primavera del 1999 i Ramblers sono prima in Irlanda per lavorare al quarto
album, e poi all'Esagono per registrarlo; con il master pronto e l'uscita fissata
per la fine di settembre, tocca poi ad una ventina di date estive davanti a
un mucchio di spettatori, nelle quali vengono eseguiti anche alcuni pezzi appena
terminati per Fuori Campo. "È un disco che forse non si sarebbe
dovuto fare, vissuto all'interno con umori diversi e senza chiarimenti che le
fratture lasciate da Terra e Libertà avrebbero reso necessari. Essenzialmente,
eravamo confusi. La mia idea, che cercai di applicare scegliendo le canzoni
e il loro ordine era 'chiudere il cerchio' con un riassunto del nostro intero
percorso mescolando acustico, etnico, rock, punk, folk, Pogues, Clash, Mano
Negra… ed è nato Fuori Campo: un disco figlio delle paure e delle
relazioni difficili. Per la preproduzione siamo andati in Irlanda, sperando
che ci ricompattasse… invece ci ha definitivamente divisi, specie con Giovanni.
Lui aveva deciso che Raccolti sarebbe stato il suo ultimo album con noi: si
sentiva prosciugato, dato che il gruppo aveva assorbito per anni tutte le sue
energie. Lo spirito del tour teatrale lo persuase a rimanere ma lui non era
contento, anche se gli davamo molto spazio perché non volevamo perderlo.
Fuori Campo è la cosa migliore che potessimo realizzare in quello specifico
momento, ma il processo fu così doloroso che il giorno dell'uscita Giovanni
annunciò che se ne sarebbe andato. Eravamo a Gijon a festeggiare i cinquant'anni
di Sepúlveda e a girare il video, e a quel punto ero determinato a lasciare
la band anch'io: non perché non volessi averci più nulla a che
fare ma perché ritenevo occorresse qualcosa di forte per smuovere la
situazione. Fu proprio Giovanni a convincermi che, invece, potevo e dovevo andare
avanti , perché l'idea dei Modena era più importante delle persone
che ci suonavano. Il clima della tournée invernale rispecchiò
quello dell'album, e nonostante dal vivo tutto funzionasse non lo vissi granché
bene, anche perché in quel periodo avevo un po' di problemi di carattere
personale. L'ultimo concerto con Giovanni come membro della società Modena
City Ramblers fu quello del capodanno del 2000 a Piazza Grande a Modena, insieme
a Goran Bregovic". Tipica opera di transizione Fuori Campo ha come note
positive la raffinata produzione di Kaba Cavazzuti , la "benedizione"
di Sepúlveda (che recita nella title track) e le canzoni più progressiste
come l'africaneggiante La rumba, la stessa Fuori campo che ammicca al reggae,
la brillantissima cover anch'essa "in levare" del canto di lotta Figli
dell'officina; più o meno tutto il resto, benché non scadente
(fra le tracce più incisiva Celtica Patchanka e la dolcissima Suad; tra
le più deludenti, invece, la scialba Etnica danza e la pacchiana Movimento)
rimanda invece direttamente a episodi del passato senza però perderne
il fascino. I delusi, comunque, si consolano con Combat Folk - L'Italia ai tempi
dei Modena City Ramblers, valida biografia ufficiale scritta da Paolo Ferrari
e Paolo Verri e confezionata dalla Giunti.
"Dopo ci fermammo un po' perché avevamo bisogno di riflettere. Mi
confrontai molto con Albertino e cominciammo a pensare al dopo-Giovanni, ma
non ci fu modo di farlo seriamente perché dopo qualche mese anche lui
diede le dimissioni. La goccia che fece traboccare il vaso fu uno screzio tra
noi due, ma forse il vero problema era l'assenza di Giovanni, che più
di noi altri aveva accompagnato la sua storia musicale. Poco prima che andasse
via incidemmo Madre Terra per A come Ambiente, una compilation del quotidiano
La Stampa finalizzata alla sensibilizzazione per il riciclaggio dei rifiuti"
. Con Albertino e Giovanni fuori gioco e già immersi nei loro personali
progetti di folk "contaminato" (i Caravane de ville per il primo e
i Fiamma Fumana, peraltro già attivi da tempo, per il secondo) i superstiti
partono per un tour estivo che vede il rientro nei ranghi dell'ospite Luciano
Gaetani e Massimo Giuntini e l'ingresso di Kaba come percussionista aggiunto
("Fummo costretti a rimettere in discussione quello che si era stabilito
dopo la defezione di Giovanni; decidemmo così di non provare a sostituire
Albertino e di ripulire il suono della fisarmonica, per noi fondamentale ma
un po' ingombrante, e dare maggior peso a strumenti come flauto, violino, mandolino.
Le date andarono bene ma ci fu di nuovo bisogno di una pausa"). In autunno
i ragazzi sono però in Sud Africa, richiesti per una collaborazione dalla
locale band etno-folk-fusion Landscape Prayers (due i brani concepiti a più
mani: Lontano, che darà il titolo all'album e del quale i Modena si riapproprieranno
nel 2004, e Un mondo che balla).
Mentre Massimo Ghiacci e Franco D'Aniello sfruttano la sosta impegnandosi nella
produzione di Pazienza santa dei Paulem per la neonata MCRecords, Cisco comunica
di voler incidere un disco con gli amici Casa del Vento. Il proposito, che ha
come seguito un'applaudita tournée invernale, si concretizza nel febbraio
2001 con 900: molti dei tredici episodi sono del quintetto aretino e altri sono
frutto di uno stretto sodalizio, con Cisco ad assumersi gli oneri (e gli onori)
vocali in misura maggiore rispetto al suo alter ego Luca Lanzi. Semplificando,
Cisco e la Casa del Vento sono una sorta di Ramblers vecchio stile ma più
"cantautoriali", legati al folk celtico (ma non solo) e alla canzone
di lotta: il modernista A las barricadas! (in Fuori campo avrebbe fatto un figurone),
il solenne Partendo da Est, il malinconico Falena e il gucciniano, enfatico
Tra cielo e terra sono tra i vertici di un album sincero e ispirato, tanto nei
temi trattati che nell'approccio per lo più lirico (e solo sporadicamente
"punk") che lo caratterizza. "A questo punto più di uno
ha ipotizzato un imminente scioglimento dei Modena: legittimo, ma 900 non era
un mio disco solistico, era un lavoro al quale ho contribuito al 50 percento
cantando, arrangiando, scrivendo e producendo. Essendo la prima cosa importante
che facevo fuori dal gruppo, è stata utile a responsabilizzarmi e 'allenarmi'
per il futuro. Inoltre, al di là del piacere di collaborare con persone
care, a me affini e molto dotate artisticamente, volevo allargare la 'Grande
Famiglia' e dimostrare che i Modena City Ramblers rimanevano una realtà
in evoluzione, che pur perdendo pezzi poteva pure trovarne altri. E ritrovare
quelli che aveva smarrito, e generare figli". E in tale ottica di "ampliamento"
va giudicato il mini-tour che nella primavera del 2001 congiunge due generazioni
di combat-(folk)-rockers nell'evento Gang City Ramblers: i Nostri e i fratelli
Severini assieme nello stesso organico, a interpretare estratti da entrambi
i repertori. Poi, con molta calma, si avvia il lungo lavoro di preparazione
del quinto cd di studio, che tocca il culmine a cavallo tra i due anni con le
registrazioni effettuate a Napoli da Enzo "Soulfingers" Rizzo e si
conclude con l'uscita, nel febbraio 2002, di Radio Rebelde.
"È un altro disco molto concettuale, scaturito da un serio confronto
interno, e per certi versi lo considero un debutto. Ho preso coscienza dei miei
mezzi, ho persino iniziato a comporre con la chitarra e a usarla sul palco.
Ma non sono stato il solo: basta pensare a Franco, che dopo vent'anni di flauto
ha imparato da zero a suonare la tromba. Eravamo molto sereni, concentrati e
senza tensioni, sebbene nei testi si avverta una certa cupezza: non poteva essere
altrimenti, per brani composti nel periodo dei fatti di Genova e dell'11 settembre.
Radio Rebelde è una spinta in avanti che rielabora i migliori spunti
- elettronici, ma non solo - di Fuori Campo. Per me è perfetto, ad ascoltarlo
mi emoziono ancora". Più che di perfezione, che come è noto
non è di questo mondo, il termine giusto è transizione: non nelle
liriche, a seconda dei casi apprezzabilmente pungenti o evocative ("C'è
molto più di mio rispetto al passato, ma anche di Massimo"), bensì
in uno songwriting a tratti banale (il punk clashiano de La legge giusta, ad
esempio, sa davvero di routine) e in strutture musicali dove le pur buone intuizioni
appaiono a volte incerte e fuori fuoco, e qua e là fini a se stesse.
Estremamente eclettico (o dispersivo: dipende se si vuol vedere il bicchiere
mezzo pieno o mezzo vuoto), Radio Rebelde ha comunque ottime frecce al suo arco,
specie nei momenti più pacati: Carretera Austral, dalle atmosfere andine
("Era da un po' che volevo scrivere qualcosa sulla Patagonia e sui desaparecidos…
alla melodia ha provveduto, in un batter d'occhio, Luca Lanzi"), Maisha,
che invece profuma d'Africa, Terra del fuoco e Triste, solitario y final; tra
i brani più ritmici spiccano invece l'ipnotica, atipica Veleno ("che
è anche molto intellettuale"), una Ghetto reggae che sembra presa
pari pari da Sandinista ("è molto Clash, ma non ci siamo mai fatti
di questi problemi") e Una perfecta excusa ("sarebbe scanzonata se
non fosse per il testo di Sepúlveda"), che ha nella ripetitività
il suo fascino e il suo limite. Per il tour che si snoda in varie tranche fino
all'estate 2003, in seguito al ritiro di Giuntini, è reclutato il polistrumentista
Luca Giacometti ("viene da un gruppo di nostri amici che suonavano musica
irlandese; in poco tempo è diventato fondamentale ed è ormai entrato
nel cuore dei nostri fan"), mentre in un tot di date di fine 2002 riappare
come "special guest" Giovanni Rubbiani; dopo i concerti benefici in
Chiapas e Guatemala del gennaio 2003, e dopo la pubblicazione primaverile dell'ep
Modena City Remix ("un divertimento, un gioco, un tentativo di accostarci
ad un mondo parallelo che non ci dispiace; è assurdo che parte dello
'zoccolo duro' si sia addirittura sentito offeso dall'operazione"), c'è
infine l'innesto del fisarmonicista Daniele Contardo ("molto bravo e competente,
in qualcosa somiglia ad Albertino; era un po' indisciplinato, ma stando al nostro
fianco si è adeguato presto"). Daniele è già presente
nella prima traccia - Al Fiòmm, dolce ballata folk dedicata al Po; sarà
ripresa dall'ultimo album - del cd-ep Gocce. "È legato al progetto
della Coop 'Acqua per la pace', al quale teniamo molto e nell'ambito del quale
andremo ad ottobre o novembre in Palestina: sarà un'occasione per cercare
di capire qualcosa su ciò che accade davvero laggiù".
Pur non essendo classificabile come capolavoro assoluto, Viva la vida, muera
la muerte! - nei negozi dallo scorso gennaio - dà segnali più
che incoraggianti per il futuro dei Ramblers; non solo per la limpidissima produzione
in chiave acustica di Max Casacci dei Subsonica, ma anche e soprattutto per
lo spessore di episodi come il frizzante e (amaramente) sarcastico El Presidente,
il grintoso e maestoso I cento passi (ispirato all'omonimo film di Marco Tullio
Giordana; ancora un omaggio alla Sicilia che non si arrende alla Mafia), l'etereo
e suggestivo Ebano (derivato da una outtake de La Grande Famiglia), gli intensi
Stella sul mare (che come i più carezzevoli Al Fiòmm e La fòla
ed la sira riallaccia i rapporti con il dialetto) e Altri mondi, senza dimenticare
la rilettura della mitica Il testamento di Tito di Fabrizio De Andrè.
"Pur muovendosi nel campo dell'elettronica, Max proviene dal nostro stesso
mondo, quello della musica acustica e "alternativa": Mau Mau, Africa
Unite, Fratelli di Soledad e Loschi Dezi. Per quattro mesi lui è stato
il nono componente della band, modificando i nostri singoli atteggiamenti: con
lui abbiamo adattato le nostre armonie più prevedibili in qualcosa di
più ricercato e articolato. Inoltre è stato molto importante anche
nelle liriche, nel linguaggio, per 'pulire' un po' il nostro modo di porci:
siamo rimasti sempre diretti e folk, ma sostituendo un paio di parole su suggerimento
di Max il tutto ha assunto un altro respiro; e poi ha saputo arginare la nostra
esuberanza e la nostra tendenza a suonare dall'inizio alla fine in ogni brano,
mettendo ordine in modo che ogni parte potesse essere apprezzata al meglio.
Per me Viva la vida è più maturo, più studiato, meno emotivo
e quindi più riuscito, ma per mio gusto preferisco Radio Rebelde, al
quale sono affezionatissimo, anche perché - grazie al suo linguaggio
diverso - ci ha consentito di raggiungere gente giovane che ora viene ai nostri
concerti e comincia a scoprire e analizzare pure il nostro passato." E
a proposito di passato l'autunno ha in serbo una bella e inaspettata sorpresa.
"L'avventura dei Ramblers finirà in un dvd, Clan balieue - Grande
famiglia in movimento, con interviste, filmati storici dal vivo e non, e tutti
i nostri video-clip". Nulla di meglio, va da sé, per avere riscontro
'tangibile' della storia fin qui raccontata a parole e per fare il punto su
ciò che è stato. Nell'attesa dei chissà quanti vagabondaggi
che di sicuro verranno.
Un grazie alla Fran per averci inviato il testo.