g8 genova x non dimenticare
Data: Lunedì, 13 dicembre @ 20:27:42 CET
Argomento: Per Non Dimenticare




scusate anche se nn c'entra nulla cn i modena ma bisogna ricordare sempre cosa è successo a genova!
Dopo Genova, parlano i poliziotti. In tre giorni di G8 sono stati vanificati vent’anni di fiction, ma soprattutto di lotte per la legalità, contro la corruzione e la mafia. Con tanti morti. «Sentivamo di avere i cittadini dalla nostra parte, anzi, di essere dalla parte dei cittadini». E adesso?

di Gianni Barbacetto e Gianluca Paolucci



Io c’ero e vi racconto

Racconta uno che a Genova c’era: «Ho partecipato alla carica di sabato sul lungomare. Ma ti assicuro che non ho picchiato nessuno. Anzi, ho salvato dalle botte molta gente, indicando vie di fuga o mettendo il mio braccio tra i corpi dei dimostranti e il manganello di qualche collega». Chi parla è un giovane sbirro che fa parte di un reparto mobile con sede in una città del centro Italia, ma spedito a Genova per il G8. «Dopo la carica contro dimostranti pacifici sul lungomare, il nostro capo ci ha chiamato fascisti a tutti quanti, ci ha gridato che si vergognava dei suoi uomini. Il giorno prima, invece, ci aveva riferito i complimenti personali del grande capo, di Gianni De Gennaro, perché per tutta la giornata avevamo preso insulti e sassate senza reagire. La tensione tra noi era alle stelle: per tutta la settimana precedente ci avevano detto che i manifestanti avrebbero avuto pistole, che ci avrebbero tirato sangue infetto e biglie all’acido. La sera di venerdì, dopo la morte di quel ragazzo, ci hanno detto che era morto anche un carabiniere. Domenica ho visto funzionari intransigenti venire alle mani con i sostenitori della linea dura, ho sentito di pezzi grossi che hanno detto di voler andare in ferie e poi lasciare la polizia».
E adesso? «Dopo Genova la gente ti guarda diversamente: qualcuno ti ferma per dirti bravi, avete fatto bene, dovevate picchiare di più. Ma molti, e secondo me sono la maggioranza, stanno zitti e ti guardano con occhi diversi, con paura, rabbia o sfiducia. Adesso voi giornalisti ci date tutti addosso. Avete scritto che siamo tutti fascisti, che abbiamo negli armadietti le foto del duce e i gagliardetti della X Mas. Ma non è vero, non è vero che la polizia è fascista, nel mio reparto i nostalgici ci sono, ma ce ne sono anche fuori, mica solo in polizia. Da noi i fascisti sono tanti quanti sono i comunisti: c’è chi fa il saluto romano e chi alza il pugno chiuso, ma sono comunque e sempre una piccola minoranza».
Il ricordo della battaglia brucia ancora. «Sul lungomare i più cattivi erano i finanzieri, quelli dell’antiterrorismo: a un certo punto qualcuno ha provato a scappare verso la spiaggia, loro gli sono andati dietro e hanno menato anche gente che stava lì a prendere il sole. Il loro capo era quello vestito da Robocop che si è visto in tante foto. La carica di sabato è stata brutta, ma la vera cazzata è stata quella l’irruzione nella scuola Diaz. Lì noi non c’eravamo, avevano mandato quelli di Roma, gente scelta apposta per il G8 sulla base di determinate caratteristiche fisiche, psicoattitudinali e anche politiche. L’errore è stato quello di lasciare campo libero ai più esaltati. Ma, credimi, è difficile restare impassibili mentre ti arrivano i sassi in testa, dopo ore e ore in piedi sotto il sole, con le maschere antigas appannate per il sudore».

Neanche un colpo di sfollagente
«Ti ripeto, io non ho tirato manco una sfollata (colpo di sfollagente, ndr), ma capisco i colleghi che lo hanno fatto, dopo che hanno visto gli stessi dimostranti che prima tiravano i sassi venirci poi incontro con le mani dipinte di bianco: è successo anche questo, te lo assicuro. La colpa? Di tutti, anche del Genoa social forum, che non ha saputo isolare i violenti e ha lasciato un corteo di due o trecentomila persone in balìa di chi prendeva l’iniziativa, senza un servizio d’ordine. Non so se c’era un piano perché succedesse tutto questo. So che ho visto tanta approssimazione, tanto casino, tanta negligenza. Credimi: per come si erano messe le cose, poteva succedere anche di peggio. E il bello deve ancora venire: vedrai che cosa succederà nelle piazze in autunno, se i sindacati mobiliteranno la gente contro Berlusconi. Noi celerini avremo molto da fare, e tutti ci saranno contro. Dopo quello che ho visto a Genova, io ho chiesto di essere trasferito in ufficio, in strada con il reparto mobile non ci voglio più stare».
In Italia ci sono 104 mila poliziotti.Le donne sono 14 mila. La metà arriva dal Sud, i nordici sono solo il 19 per cento. Leggono i giornali, si informano. Sono in gran parte diplomati (56 mila) e molti (5.500) anche laureati. A una analisi sociologica, gli sbirri appaiono più istruiti della media degli italiani. Ma reali prospettive di futuro, poche. Negli anni scorsi è stata attuata una politica delle promozioni facili, così che ora i graduati sono circa il 40 per cento: quasi un capo per ogni agente. Negli ultimi sei mesi, ben 500 commissari (su 2.500) se ne sono andati. Per approfittare di una legge che ora permette la diretta mobilità interna alle amministrazioni pubbliche: ma quando se ne vanno in tanti - e proprio nella fascia dei trenta-trentacinquenni, tutti laureati, molti appassionati del loro lavoro, insomma quelli che dovrebbero costruire la nuova polizia di domani - non si può non pensare che l’esodo sia segno di una crisi, di un disagio diffuso.
Racconta uno dei commissari che ha lasciato la polizia: «Da qualche tempo l’aria è cambiata. Noi, per esempio, avevamo cominciato a impostare un lavoro per capire i nuovi fenomeni (la criminalità straniera, per esempio) e poterli quindi affrontare con successo. Ma sono arrivati i nuovi ordini: tolleranza zero, basta lunghe indagini sui fenomeni, tornare a lavorare sui singoli fatti, ottenere risultati rapidi. I capi, pressati dalla nuova politica, volevano poter esibire i numeri, le quantità, gli arrestati. Perché stare mesi a fare un’indagine sui gruppi criminali cinesi, quando rende di più andare sui viali e fare una retata di prostitute? Non ero entrato in polizia per andare a caccia di puttane: a questo punto, ho salutato e me ne sono andato».
Chi resta, ora, dovrà fare il conti con il nuovo clima. Tanta professionalità, tanta passione, tanta generosità dovranno provare a combattere e vincere il disagio e l’umiliazione del dopo-Genova.



Ora è duro essere sbirro

«Papà, fai anche tu così? E' quello che mi ha chiesto la mia bambina, che ha otto anni, quando ha visto alla tv le immagini dei poliziotti che a Genova picchiavano dimostranti indifesi». Eccolo qui, raccontato in un soffio, tutto il disagio degli sbirri. Poliziotti che hanno scelto di fare i poliziotti, che amano quel loro maledetto mestiere, che sono fieri della loro divisa, che negli ultimi anni hanno avvertito anche il sostegno dei cittadini e si sono sentiti dalla parte giusta. E ora, dopo le giornate di Genova, si accorgono che qualcosa si è rotto, che niente sarà più come prima. Raccontano. Con pudore, con pacatezza, con dolore, a volte con rabbia. I loro nomi di uomini e donne, meglio lasciarli nella penna, ma le loro parole no: chiedono di capire che cosa è successo, cercano di spiegare com’è potuto accadere.
Nei piani alti, intanto, avviene un altro psicodramma, specchio - anche se più deformato dalla politica - di quello che colpisce i poliziotti dei piani bassi: lassù, i migliori sbirri d’Italia, nomi leggendari, figure che in America sarebbero già film, uomini che hanno vinto le ultime battaglie contro la mafia e il terrorismo, oggi sono sotto accusa, devono traslocare in fretta dai loro uffici, oppure restarci ma dimezzati, feriti come un’anatra zoppa da abbattere alla prima occasione. Che cosa diavolo è successo, in quei tre stramaledettissimi giorni di luglio, a Genova? Quale follia è esplosa? Che fottuta trappola è scattata, «per noi sbirri», piccoli e grandi? La domanda forse è ingenua. Ma dobbiamo partire da qui, incrociando il disagio della truppa con il terremoto che ha scosso i grandi capi, se vogliamo capire davvero, senza pregiudizi da guerra fredda, che cosa è accaduto a Genova.



Genova 2001, ritorno al passato

«Io non voglio giudicare. Ma ho visto con i miei occhi, alla tv, cose che non avrei voluto vedere». Chi parla è un giovane sbirro, laureato, colto, che lavora nel contrasto alla criminalità organizzata e ha deciso, qualche anno fa, di fare il poliziotto. Come tanti suoi colleghi, non ha niente a che vedere con gli agenti «proletari» che non avevano scelta e intenerivano Pier Paolo Pasolini, dopo gli scontri con gli studenti («borghesi») a Valle Giulia, nel 1968. «Siamo tutti frastornati», confessa il poliziotto. «Ne parliamo tra di noi, ma non sappiamo che cosa concludere. E io, in più, non so che cosa rispondere a mia figlia di otto anni». Una giovane collega discute con lui, davanti a un aperitivo analcolico alla frutta: una poliziotta acuta e intelligente che ha appena terminato di lavorare a una lunga inchiesta antimafia i cui esiti non sono stati neppure ammessi nel processo a cui si riferivano. «Lo slogan Polizia assassina non lo sentivamo più dagli anni Settanta, quando noi in polizia non eravamo ancora neppure entrati. Negli ultimi anni polizia voleva dire lotta alla mafia, lotta alla corruzione, difesa della legalità. Voleva dire servizio allo Stato, anche a costo della vita. Abbiamo avuto i nostri martiri, ma sentivamo che i cittadini erano con noi, dalla nostra parte. Anzi: che noi eravamo dalla parte dei cittadini, e che i cittadini lo sapevano. Per questo mandavamo giù anche i bocconi amari che si devono inghiottire quando si fa questo lavoro. Poi, sono bastati tre giorni, a Genova, per rovinare tutto. Si è spezzata la linea di fiducia tra polizia e cittadini, costruita con anni di lavoro e con il sangue di tanti morti. E della guerra alla mafia, della lotta alla corruzione nessuno si ricorda più».
Le manganellate feroci su cittadini pacifici, nelle strade di Genova. La macelleria dell’irruzione notturna nella scuola Diaz. Le botte e le sevizie ai fermati, nella caserma di Bolzaneto. E le donne umiliate e chiamate «puttane», le canzoncine su Pinochet e sugli ebrei, i fermati obbligati a gridare «viva il duce»... Se elencate a loro, gli sbirri, i capi d’accusa (documentati dalla spietata presenza della tecnologia mediatica e dalle inaggirabili testimonianze delle vittime), le reazioni che si ottengono sono in due fasi. Primo tempo: la difesa. C’era disordine, guerra, attacco alla legalità, sassate contro le forze dell’ordine, vetrine infrante, auto bruciate, distruzione della città. Le forze di polizia presenti sulla piazza hanno reagito, come erano tenute a fare. I reati, l’illegalità, stavano dall’altra parte, nelle file dei dimostranti: black bloc, ma (diciamo la verità) non solo black bloc. Secondo tempo: l’autocritica. «Quelle cose che ho visto alla tv e ho letto sui giornali non si devono fare. Non è questa la polizia che conosco. Questa non è la mia polizia. Certo, lo so che ci sono tanti giovani che entrano in polizia tanto per trovare un lavoro, per assicurarsi uno stipendio. Lo sappiamo, c’è una parte di noi che è pronta a menare le mani. Sono soprattutto quelli dei reparti mobili, la ex celere. Hanno il culto del corpo, passano il tempo libero in palestra. Ma sono ragazzi che Pinochet non sanno neanche chi è - e forse questo è il dramma. Sa qual è la verità? Non hanno più esperienza delle manifestazioni politiche, non hanno mai partecipato a uno scontro di piazza, non sanno come comportarsi. L’unica esperienza che hanno è quella degli stadi, dove è guerra totale, dove contro gli hooligan tutto è permesso. Ecco: molti poliziotti sono andati a Genova, alla carica contro trecentomila manifestanti, come sarebbero andati a manganellare un’orda di hooligan arrivata da chissà dove».
Parlano, i nuovi poliziotti che mai nessuno va a sentire. «Questa storia del G8 è stata montata per settimane. Tutti a creare l’evento, ad attendere l’appuntamento, da una parte e dall’altra. Andare a Genova era come partire per una guerra. Ci hanno allarmato per giorni con le voci che ci avrebbero gettato addosso perfino il sangue infetto. Quando poi è arrivato il momento, con davanti a noi due o trecentomila persone che giravano come padroni in una città che noi non conoscevamo, la tensione si è scaricata: a colpi di manganello».



I miei colleghi che hanno brindato (al morto)

Un poliziotto esperto di antidroga, capace di condurre un’inchiesta «di strada» come di tenere una lezione su Max Weber, scuote la testa sconsolato. «Cosa vuoi che ti dica? I poliziotti compagni (quelli che votano Ds, o che simpatizzano per Rifondazione, o quelli impegnati nel sindacato Cgil) si allineano più o meno alle segreterie nel condannare le violenze degli uni (Genoa social forum o black blockers) e l’inadeguatezza degli altri (colleghi, dirigenti, tecnici del ministero). Nessuno spende una parola sui contenuti della protesta o, men che meno, del G8 e della globalizzazione. Gli sfigati come me ritengono che, una volta che si è scelto di lasciare la piazza al confronto militare, senza alcuna capacità di governare politicamente l’evento, il risultato non può essere che quello che è stato. Pessimo. Certo, a qualcuno può venire il sospetto che sia stata pianificata, sul piano militare, la strumentalizzazione dei gruppi più violenti, per poter poi provocare e reprimere e criminalizzare l’intero movimento. Ma io, come poliziotto, preferisco pensare alla solita carenza di intelligence e di coordinamento internazionale nel monitorare i flussi dei violenti. Oppure - e questo mi sembra già più sostenibile per la mia autostima - alla scelta di lasciare la città sguarnita a favore della maggior serenità possibile dei padroni del vapore, salvo poi fare il conto dei danni. Quanto alla perquisizione nella scuola, ti ricordi com’era il centro sociale Leoncavallo di Milano dopo le ìperquisizioniî dei carabinieri? Non prendiamoci in giro, anche questa di Genova è stata una perquisizione punitiva, eppure non è il peggio che sia successo. Il peggio sono le battute che io comincio a sentire tra i miei colleghi, e non solo tra quelli del reparto mobile, ma tra i poliziotti normali, anche quelli che a Genova non ci hanno neppure messo piede: battute come ìUno a zero, palla al centroî, o ìAbbiamo schiacciato la testa alle zeccheî, oppure ìAvete voluto il morto e l’avete avutoî, fino a ìAbbiamo brindatoî (al morto, s’intende). Io spero, davvero, che sia soltanto il solito, stupido modo per esorcizzare gli orrori visti (e visti, per lo più, in televisione) o per esorcizzare il dubbio, che ogni tanto ti viene, se per caso non stai dalla parte sbagliata. Ma lasciamo perdere queste considerazioni: sono solo un modesto sbirro con modeste speranze».
Ma ci sono, i violenti? «Non so se ci sono squadrette fasciste, non credo. Ma squadrette violente sì, ci sono», risponde un agente. «Adesso siamo umiliati per quello che abbiamo visto alla tv e perché torniamo a vedere sui muri ìPs, Ssî. Ma se è vero che Genova è una svolta, è anche vero che la violenza non è nata a Genova. Questa volta abbiamo visto, questa volta chi è stato maltrattato ha potuto denunciarlo: ma quanti ogni giorno subiscono soprusi e non hanno voce per denunciarlo? Provi a dipingersi la faccia di nero, magari senza permesso di soggiorno in tasca, e poi vedrà...».
Non è un argomento di cui parlano volentieri, gli sbirri. Ma qualcuno prova a fare un ragionamento: per anni ci hanno detto che bisogna avere «tolleranza zero», con due o tre partiti che ci giocavano sopra le campagne elettorali; ora hanno vinto e, allora, perché stupirsi? C’è una storia, una piccola storia di ordinaria violenza nei confronti di chi non ha voce, che è emersa nelle settimane scorse: è la vicenda di una mezza dozzina d’agenti del commissariato Garibaldi di Milano, che ha massacrato di botte un albanese, sotto gli occhi della moglie e della sua bambina di un anno. «Albanese di merda», e giù manganellate.L’episodio non è rimasto sepolto soltanto perché è finito in una sentenza del tribunale di Milano: alcuni cittadini avevano assistito alla scena e questa volta, invece di voltarsi dall’altra parte, erano intervenuti e avevano testimoniato la verità.






Ai piani alti
Chi vincerà, invece, la partita che si combatte ai piani alti della polizia? Per ora, in attesa dell’indagine giudiziaria, i soli sconfitti sono tre superpoliziotti (il vicecapo vicario della polizia Ansoino Andreassi, il direttore dell’antiterrorismo Arnaldo La Barbera e il prefetto di Genova Francesco Colucci) che hanno dovuto lasciare il loro posto in seguito a un’inchiesta amministrativa. Ma che cosa sia successo a Genova durante il G8 resta per molti aspetti ancora un mistero. A partire dal vero e proprio giallo del Viminale: dov’era il ministro dell’Interno Claudio Scajola nelle giornate tra il 19 e il 22 luglio? Non a Genova, dove era in corso il vertice. Ma neppure a Roma, nel suo ufficio al ministero. Chi ha gestito politicamente quei giorni drammatici?
Molte settimane prima, tutto era iniziato sotto il segno del dialogo: il ministro degli Esteri Renato Ruggiero e il capo della polizia Gianni De Gennaro avevano incontrato i rappresentanti del Genoa social forum e avevano assicurato di voler garantire la sicurezza del vertice, ma anche il diritto a manifestare dei no-global. Mentre si mostravano le carote, sotto sotto si preparava però il bastone: la blindatura della città per rendere inespugnabile la zona rossa e la chiusura della stazione di Brignole per fare in modo che Genova fosse più difficilmente raggiungibile. Il primo obiettivo (ne era responsabile il vicecapo della polizia Antonio Manganelli) è stato raggiunto con successo: la zona rossa è rimasta un deserto inviolato e il programma di lavoro del G8, vera ossessione di Silvio Berlusconi, non ha dovuto subire il benché minimo cambiamento.
Tutto il resto, però, è saltato. Fuori dalla «città proibita» è stato un fallimento dopo l’altro. Come se fosse stata cambiata - e all’ultimo momento - la strategia d’intervento. Sembrava fosse stata preparata una strategia preventiva: le strutture d’intelligence, italiane e straniere, avevano annunciato la presenza dei black bloc e avevano preparato lunghe liste di nomi. Il Dipartimento amministrazione penitenziaria era pronto a Genova fin dal 15 luglio, e dal 17 era in grado di «accogliere» un numero consistente di ospiti. Il carcere di Marassi era stato «alleggerito» di 200 detenuti per far posto ai nuovi ospiti previsti. Invece fino al 20 la polizia penitenziaria è rimasta inattiva, le gabbie preparate a Bolzaneto e le celle di Marassi sono rimaste vuote.
Eppure non erano mancate, dopo i rapporti delle strutture d’intelligence, neppure le segnalazioni sul campo della presenza di black bloc (come le denunce della presidente della Provincia di Genova Marta Vincenzi). Niente. Tutto è restato fermo, a Genova, dove intanto era sbarcato il vicepresidente del Consiglio Gianfranco Fini, con un quartetto di parlamentari del centrodestra. Installati nelle sale operative di polizia e carabinieri, mentre di Scajola si perdevano letteralmente le tracce, Fini e i quattro sono la vera centrale politica dei giorni del G8. Scajola ha abdicato al suo ruolo e il ministro dell’Interno, in quei due giorni, lo ha fatto Gianfranco Fini.
Venerdì 20 luglio le varie polizie presenti in forze a Genova assistono alle scorribande dei black bloc senza riuscire a compiere interventi efficaci. Sono sotto scacco, con conseguente frustrazione. Nel pomeriggio, un carabiniere di leva uccide il giovane Carlo Giuliani. Sabato 21 luglio è la giornata della rivincita. Archiviata ormai la strategia preventiva, scatta quella repressiva. Come avessero avuto finalmente via libera, la polizia, ma anche i carabinieri e i gruppi antiterrorismo della Guardia di finanza (responsabile politico: il ministro Giulio Tremonti) si scatenano. L’obiettivo non sono però i gruppi organizzati e violenti, che escono quasi indenni dagli scontri, ma tutti i dimostranti, colpiti indiscriminatamente e selvaggiamente. Il nemico, ormai, è il Genoa social forum, accusato di essere l’incubatore dei violenti. La mattina di sabato 21 luglio la polizia rinuncia, malgrado avesse migliaia di uomini a Genova, ad entrare nell’edificio della Provincia a Quarto, dove si erano installate le tute nere.
La sera, invece, entra nella scuola Diaz, sede di Genoa social forum.Scatta l’operazione che avrebbe dovuto dimostrare che il Gsf era il burattinaio dei black bloc: dopo aver informalmente avvertito la stampa, varie squadre di diverse polizie penetrano nell’edificio - senza mandato della magistratura e in maniera un po’ anarchica, come black bloc di Stato. Non trovano niente di rilevante, la prova della connivenza non c’è, in compenso si scatenano in una vera e propria vendetta contro i manifestanti, puniti per le frustrazioni patite il giorno prima e le devastazioni compiute (da altri) il giorno stesso. Chi ha segnalato che alla Diaz c’era la «centrale dei terroristi»? E come mai poliziotti di grande esperienza come La Barbera e il capo del Servizio centrale operativo della polizia Franco Gratteri si sono lasciati incastrare in una operazione sbagliata, confusa e mal condotta, prima che grondante illegalità?
Le vendette continuano, domenica 22 luglio, contro i fermati, picchiati e seviziati nella caserma di Bolzaneto. Anche qui, regna il caos e l’anarchia: come mai qualunque poliziotto, contro ogni regolamento, è lasciato entrare nella caserma, ad aggiungere il suo contributo alle sevizie?

E i politici non hanno colpe
Chiusa (malissimo) la fase «militare», comincia la gestione politica. Crolla subito, davanti alle immagini trasmesse in tutto il mondo e alle proteste di molti Paesi europei, la linea dura di chi sostiene che le polizie non avevano commesso nulla d’illegale. Crolla anche il rifiuto della maggioranza di governo di istituire una commissione parlamentare d’indagine, che viene invece varata. Una commissione d’inchiesta amministrativa della polizia giunge a far saltare, in tempi rapidi, Andreassi, La Barbera e Colucci, mentre la magistratura di Genova lavora a pieno ritmo su otto differenti filoni d’indagine, la maggior parte dei quali riguarda presunti reati commessi dalle polizie.
Curioso destino, quello dei poliziotti finiti sotto accusa per Genova. Sono per lo più, insieme al grande capo Gianni De Gennaro, i protagonisti della più emozionante stagione dell’antimafia degli ultimi decenni, sono quelli che hanno sconfitto la Cosa nostra di Totò Riina e che conoscono bene anche le accuse che alcuni mafiosi pentiti hanno rivolto a Dell’Utri e Berlusconi. Andreassi, che invece ha una storia diversa dal gruppo di De Gennaro, è però indicato dal Velino di Lino Jannuzzi come uomo di Luciano Violante, il «ministro dell’Interno dei Ds».
Giunti ai vertici del Viminale sotto i governi di centrosinistra, ora, sotto un governo di centrodestra, sono allontanati o azzoppati grazie al pasticcio di Genova, senza neppur bisogno di ricorrere a epurazioni ufficiali.
Intanto, nessuna responsabilità viene assunta dai responsabili politici del disastro: l’invisibile Scajola, il fin troppo visibile Fini, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi che a Genova era tutto assorbito da fioriere e panni stesi, il ministro leghista della Giustizia Roberto Castelli, anch’egli presente, per sua stessa ammissione, nella caserma degli orrori di Bolzaneto.
Piccoli e grandi sbirri sono oggi alle prese con la trappola Genova. Con i politici che un po’ attaccano, un po’ coprono, purché non siano messe in discussione la loro responsabilità.

(da Diario, 10 agosto 2001)

Riceviamo da sdbdnapoli e pubblichiamo



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