Comunicato del Subcomandante Insurgente Marcos
Data: Martedì, 05 ottobre @ 15:19:06 CEST
Argomento: Succede nel Mondo


preso a prestito da carta...
LA VELOCITA' DEL SOGNO
un lungo comunicato del subcomandante Marcos.
Buona lettura.

[04.10.2004]
La velocità del sogno
Prima parte: Stivali
L'alba sulle montagne del Sudest messicano non corre. Come non avesse fretta, si crogiola in
Tutti e in ciascun angolo, come un amante paziente ed affezionato. La nebbia le scivola dalla mano, con il suo lungo abito di nuvola, e riesce a coprire la luce più intensa, l'accerchia, la circonda con la sua coltre di nuvola, la racchiude in un ampio circolo. Dalla metà del cielo, la luna batte in ritirata. Una voluta di fumo si confonde con la foschia, lentamente, con la stessa lentezza con la quale la nuvola, sotto l'ampio volo del suo nagua, copre le capanne sparse. Tutti dormono. Tutti meno l'ombra. Tutti sognano. Soprattutto l'ombra. Tende appena la mano ed afferra una domanda.
Qual è la velocità del sogno?
Non so. Forse è... Ma no, non lo so...
In realtà, qua, quello che si sa, si sa in maniera collettiva.
Sappiamo, per esempio, che siamo in guerra. E non mi riferisco solo alla guerra propriamente zapatista che non cessa di soddisfare le btamosie di sangue di alcuni mezzi di comunicazione e di alcuni intellettuali "di sinistra", così attenti, gli uni, alla quantità di morti, feriti e scomparsi, e gli altri a tradurre i morti in errori "per non aver fatto quello che io avevo detto loro di fare".
Non solo, parlo anche di quella che noi chiamiamo "IV Guerra Mondiale" dichiarata dal neoliberismo e contro l'umanità. Quella in atto su tutti i fronti e in ogni luogo, comprese le montagne del Sudest messicano. La stessa che in Palestina e in Iraq, in Cecenia o nei Balcani, in Sudan o in Afghanistan, con eserciti più o meno regolari. Quella che il fondamentismo dell'una e dell'altra fazione porta in tutti gli angoli del pianeta. Quella che, assumendo forme non militari, miete vittime in America Latina, nell'Europa Sociale, in Asia, in Africa, in Oceania, nel Lontano Oriente, con bombe finanziarie che mandano in pezzi interi stati nazionali ed organismi internazionali.
Questa guerra che, secondo noi (insisto: tendenzialmente) vuole distruggere/spopolare territori, ricostruire/riordinare le geografie locali, regionali e nazionali e creare, con il ferro e con il fuoco, una nuova cartografia mondiale. Quella che, sul suo percorso, continua a lasciare la sua firma: la morte.
Forse la domanda "qual è la velocità del sogno?" dovrebbe essere accompagnata dalla domanda "qual'è la velocità dell'incubo?"
Ancora alcune settimane prima degli attentati terroristici dell'11 marzo 2004 in Spagna, un
giornalista-analista politico messicano (di quelli a cui quando si dà un dolcetto si sciolgono in lodi ridicole) lodava la visione "dello Stato" di José María Aznar.
L'analista diceva che, affiancando gli Stati uniti e la Gran Bretagna nella guerra contro l'Iraq, Aznar aveva ottenuto una promettente possibilità di espandere l'economia spagnola e che l'unico costo che doveva pagare era il dissenso di una "piccola" parte della popolazione spagnola, "i radicali che non mancano mai, perfino in una società tanto fortunata come quella spagnola", ha detto "l'analista". Aggiungendo che gli spagnoli avrebbero dovuto solo aspettare comodamente seduti che l'affare della ricostruzione dell'Iraq si mettesse in marcia ed allora sì, avrebbero cominciato a riscuotere carrettate di denaro. Insomma, un sogno.
La realtà non ha tardato a passare per riscuotere il vero conto della "visione dello Stato" di Aznar.
Quella mattina dell'11 di marzo si realizzava quella ccircostanza per cui l'Iraq non sta in Iraq, voglio dire non solo in Iraq, bensì in tutto il mondo. Alla fine, la stazione di
Atocha è divenuta sinonimo di incubo.
Prima dell'incubo c'era il sogno, ma il sogno neoliberista. Molto prima degli attentati terroristici dell'11 settembre 2001 in territorio statunitense, la guerra contro l'Iraq si era messa in moto.
Non c'è niente di meglio di una foto per riandare a quell'inizio...
Suolo piatto, rossiccio. Sembra essere duro. Forse argilla o qualcosa di simile. Uno stivale. Solo, senza il suo compagno. Abbandonato. Senza un piede che lo calzi. Alcune macerie sparse. In realtà, lo stivale sembra una maceria in più. È tutto quello che c'è nell'immagine, cosicché è la didascalia della foto a chiarire che si tratta dell'Iraq. La data? 2004, settembre.
Non si riesce a distinguere se è lo stivale di qualcuno che è morto, che l'ha abbandonato nella fuga, o se si tratta semplicemente e normalmente di uno stivale buttato via. Non si sa neanche se è lo stivale di un soldato statunitense o britannico, o di un combattente della resistenza, di un civile iracheno o di un altro paese.
Tuttavia, nonostante la mancanza di altre informazioni, l'immagine dà un'idea di quello che è l'Iraq del "dopoguerra" di Bush: violenza, morte, distruzione, desolazione, confusione, caos.
Tutto un programma neoliberista.
Se il falso argomento che la guerra contro l'Iraq era una guerra "contro il terrorismo" è venuto meno, le vere ragioni emergono ora, più di un anno dopo che, con l'aiuto dei carri armati da guerra statunitensi, è stata abbattuta la statua di Hussein ed un euforico
Bush ne ha eretta un'altra a se stesso dichiarando la fine della guerra. (Probabilmente, la resistenza irachena non ha ascoltato il messaggio di Bush: il numero di soldati statunitensi e britannici morti e feriti non ha fatto altro che aumentare da quando "è finita la guerra", ed ora si aggiungono le morti di civili provenienti da varie nazioni).
L'ideologia neoconservatrice negli Stati Uniti ha un sogno: costruire la "disneyland" neoliberista. Invece del "villaggio modello", come dettano i manuali di contro-insurrezione degli anni sessanta, si è tentato di costruire una "nazione modello". Si è scelto allora il territorio dell'antica Babilonia.
Il sogno della costruzione di un "esempio" di quello che deve essere il mondo (sempre secondo i neoliberisti) si è nutrito della "(...) più apprezzata credenza tra gli architetti ideologici della guerra (contro l'Iraq): che l'avidità è buona. Non solo buona per loro ed i loro amici, ma buona per l'umanità e certamente buona per gli iracheni. L'avidità crea guadagni, i quali creano crescita, la quale crea lavoro, prodotti e servizi e qualunque altra cosa di cui qualcuno possa aver necessità o desiderio. Il ruolo di un buon governo, quindi, è quello di creare le condizioni migliori perché le corporations, le multinazionali, sviluppino la loro avidità senza fondo, in modo che, a turno, possano soddisfare le necessità della società. Il problema è che i governi, anche i governi neoconservatori, hanno raramente l'opportunità di sperimentare quanto sia corretta la loro sacra teoria: nonostante i loro enormi sforzi ideologici, perfino i repubblicani di George Bush, nei loro stessi vertici, sono eternamente sabotati da impiccioni democratici, sindacati ostinati ed allarmati ambientalisti. L'Iraq doveva cambiare tutto questo. In un luogo della Terra, finalmente la teoria sarebbe stata messa in pratica nella sua forma più perfetta e pura. Un paese di 25 milioni di abitanti non sarebbe stato ricostruito come era prima della guerra: sarebbe stato cancellato, sarebbe scomparso. Al suo posto sarebbe sorta una luccicante sala d'esposizione per le politiche del laissez-faire, un'utopia come il mondo
non aveva mai visto". ("Baghdad anno zero. Il saccheggio dell'Iraq dietro un'utopia neoconservatrice", Naomí Klein, Harper's Magazine, settembre 2004).
Invece l'Iraq è un esempio, sì, ma di ciò che aspetta il mondo intero se i neoliberisti vincono la grande guerra, la IV Guerra Mondiale: disoccupazione quasi al 70 per cento, l'industria ed il commercio paralizzati, aumento esorbitante del debito estero, muri anti-attentato ovunque, crescita esponenziale del fondamentalismo, guerra civile... ed esportazione del terrorismo in tutto il pianeta.
Non voglio sommergervi con qualcosa che quotidianamente trovate nei notiziari: offensive militari della coalizione (attenzione: in una guerra che "è già finita"), mobilitazione della resistenza irachena, attentati, attacchi ad obiettivi militari e civili, sequestri, esecuzioni, nuove offensive della coalizione, nuova mobilitazione della resistenza irachena, eccetera. Sono sicuro che potrete trovare esaurienti informazioni sulla stampa di tutto il mondo. In lingua spagnola, senza dubbio la miglior fonte è il quotidiano messicano La Jornada che conta tra i suoi collaboratori alcuni degli analisti più seri e documentati sulla questione dell'Iraq.
La cosa sicura è che questo video l'abbiamo già visto prima da altre parti... e continuiamo a vederlo: Cecenia, i Balcani, Palestina, Sudan, sono solo esempi di questa guerra che distrugge nazioni per cercare di "riconvertirle" in "paradisi"... e finiscono per essere trasformate in inferni.
Uno stivale abbandonato sulle terre dell'Iraq "liberato" riassume il nuovo ordine mondiale: la distruzione di nazioni, la desertificazione di qualsiasi segno di umanità, la ricostruzione come riordinamento caotico delle rovine di una civiltà.
Tuttavia, ci sono altri stivali, anche se pochi...
Stivali rotti. Sì, gli stivali dell'"insurgenta" Erika sono rotti. Nella punta destra davanti, la suola è staccata e conferisce allo stivale l'aspetto di una bocca affamata. Le dita non sono ancora visibili, cosicché la Erika non sembra essersi accorta che i suoi stivali, precisamente il destro, sono rotti.
Fin dai primi giorni in montagna, guardare verso il basso è diventata per me un'abitudine. La calzatura normalmente è uno dei sogni/incubi del guerrigliero (Altri? Lo zucchero, avere i piedi asciutti ed altre ossessioni piuttosto umide), cosicché egli le dedica buona parte della sua attenzione. Forse per questo motivo si prende la mania di guardare sempre i piedi degli altri.
La insurgenta Erika è venuta ad avvisarmi che avevano appena pubblicato il racconto "L'arancia magica" (ultima produzione di Radio Insurgente che racconta di... bene, è meglio ascoltarlo). Io le rispondo che ha lo stivale rotto. Lei abbassa lo sguardo e mi dice "anche tu". Saluta militarmente e va via.
La Erika si cambia perché tra poco giocheranno a pallone due squadre di "insurgentas", una si chiama "8 Marzo" e l'altra "Le Principesse della Selva". Non so molto di calcio ma, a mio parere, le "principesse" giocano con un stile abbastanza lontano dalle buone abitudini della corte reale, e quelle del "8 Marzo" giocano come si trattasse dell'insirrezione del primo gennaio [del 1994, quando l'Esercito zapatista insorse in Chiapas, ndt.]. Cioè, buona parte di loro finisce in infermeria. Ogni volta che giocano, le addette alla sanità tengono la barella a lato del campo. "Per non fare il giro", dicono.
Hanno poi pareggiato. Cioè, le "insurgentas" hanno pareggiato giocando a calcio. Sono andate ai rigori perché continuavano ad restare in pareggio. La "insurgenta" Erika viene a dirmi questo. La Erika è la consulente sentimentale delle "insurgentas", ma questa volta non viene a raccontarmi che ad una compagna "duole il cuore" per il mal d'amore, ma che la partita è finita e lei va a parlare con il villaggio, più in concreto con le donne dei villaggi. Si presenta come civile, cioè con abiti civili. Questo è quello che dice. Perché io vedo che porta degli stivali fabbricati dall'artigianato zapatista e che hanno sul lato il marchio "Ezln".
"Mmh, se porti quegli stivali, allora tanto vale che indossi l'uniforme completa", lei dico cercando di essere sarcastico. La Erika se ne va. Dopo un momento ritorna con l'uniforme. "Dove vai?", le domando. "Al villaggio", risponde. "Ma come ti viene in mente di andarci in uniforme?", le domando/rimprovero. "Perché così mi hai detto.", mi dice di averle detto. Capisco che è inutile tentare di spiegare le qualità della sottile ironia, quindi le ordino: "No, mettiti in abiti civili e togliti quegli stivali". Se ne va. Dopo un attimo ritorna con abiti civili... e scalza. Ho sospirato, che cos'altro potevo fare?
Non credete alla Erika, il mio stivale non è rotto. È scucito, e non è la stessa cosa. Si staccato un occhiello ed è per questo che l'incrocio delle stringhe sembra il sistema politico nel neoliberismo, cioè, un groviglio in cui non si sa dove va la destra e dove va la sinistra. Sto spiegando questo a Rolando quando arriva...
La Toñita Prima-Generazione, cioè la Toñita I (quella del bacio negato perché "pizzica tanto", quella della tazzina rotta, quella dell'olote di mais promosso a bambola): ha già 15 anni. "Cioè ha compiuto i 14 ma è entrata nei 15, cioè va per i 16", mi dice suo papà, un responsabile zapatista dei più vecchi tra noi.
Io mi siedo, senza confessare che non ho mai capito le misure matematiche che regolano i calendari nelle comunità ribelli zapatiste (dopo aver tentato inutilmente di spiegarmelo, il Monarca si rassegna ed aggiunge solo: "Credo che sia perché così è il nostro modo, che effettivamente è molto diverso").
Il papà della Toñita I (cioè della Toñita Prima-Generazione) è venuto perché io la vedessi,
perché sono paassati più di dieci anni da quando l'ho vista l'ultima volta. Dieci anni non passano invano, cosicché la Toñita I non solo non mi nega un bacio, ma senza che io riesca a dire niente mi abbraccia e mi stampa un bacio sulla guancia ovattata dal
passamontagna, e diventa tutta rossa (la Toñita I, non il passamontagna). Io non dico niente ma penso "Mmh, si mette male... e non mi sono tolto il passamontagna neanche per lavarmi".
Intanto la Toñita I tira fuori dal suo zaino degli stivali e se li mette. Io sto per domandarle perché si mette gli stivali dopo avere camminato scalza per sei ore dal suo villaggio a qui, invece di metterseli per il cammino e toglierseli all'arrivo, ma la Toñita I mi precede e mi domanda se può andare "là", e indica dove c'è un gruppo di "insurgentas". La Toñita I sa quello che si può ottenere con un bacio, anche se sul passamontagna, così non aspetta la risposta e corre via.
Mentre la Toñita I corre a vedere se la lasciano giocare nella partita di calcio delle "insurgentas", il padre mi racconta del suo villaggio (che io ho sempre chiamato, stando attento che nessuno mi sentisse, "Cime tempestose"). Sono riuscito a vedere la cicatrice di una ferita sul braccio sinistro della Toñita I, così gli domando cos'è. Il papà della Toñita I mi racconta che un giovane del villaggio voleva portarsela nella latrina. (Nota: chiarisco all'ignaro lettore di queste righe che la latrina in alcuni villaggi non adempie solo alle sue odorose funzioni igieniche, ma suole essere anche luogo di incontro di coppie. Non sono pochi i matrimoni in comunità che hanno come origine il per nulla romantico luogo della latrina. Fine della Nota). Il caso vuole che la Toñita I non ha voluto andare alla latrina. "Cioè non le piaceva", mi conferma suo papà. Allora il ragazzo ha cercato di obbligarla e, "dato che non le andava" - ribadisce suo papà - hanno lottato. La Toñita I è riuscita a fuggire ma, come succede, la cosa si è risaputa ed è giunta fino all'assemblea del villaggio. Il papà della Toñita I mi racconta che la volevano mettere in prigione. Io lo interrompo: "Perché, se è lei che è stata aggredita ed ha persino il braccio ferito?". "Ah, Sup, avessi visto com'era ridotto il giovanotto... - mi dice il papà - praticamente è rimasto menomato, il fatto è che la
Toñita, come si dice, è molto selvaggia".
La Toñita I, oltre ad un viso grazioso, ha un fisico forte, cioè, come spiegarvi? Beh, per farvi capire vi dirò solo che Rolando vuole che giochi al centro della difesa nel torneo zapatista di calcio.
"Ma la squadra delle 'insurgentas' è già al completo", dico a Rolando. Lui aggiunge solo: "Non è per la squadra delle 'insurgentas', io la voglio per la squadra degli uomini". In quel momento passano le addette alla sanità con due "insurgentas" piuttosto peste. La Toñita
I sta piangendo perché per colpa sua hanno rifilato due rigori alla squadra. A questo punto capisco Rolando, mi rivolgo al papà e gli domando: "La Toñita non ha detto se vuole diventare insurgenta?".
La Toñita I si è tolta gli stivali e li ha messi nel suo zaino. Se ne va con suo papà, camminando scalza.
Non è molto che se n'è andata quando, accompagnata da sua mamma... appare la Toñita Seconda-Generazione, cioè la Toñita II.
La mamma della Toñita II, o Seconda Generazione, si chiama Elena. È tenente "insurgenta" di sanità ed ha il merito di aver salvato la vita di diversi insorti e miliziani che, nel gennaio 1994, erano stati feriti nei combattimenti di Ocosingo [lo scontro più cruento del primo gennaio '94, quando l'esercito federale aprì il fuoco sugli insorti in un mercato, ndt.]. In un più che modesto ospedale da campo, Elena ha operato ferite d'arma da fuoco ed estratto pezzi di mitraglia dal corpo degli zapatisti. "Ci è morto un 'compa'" [familiare per "compañero", ndt.], mi diceva allora. Non menzionava gli oltre 30 combattenti che oggi vivono e lottano in queste terre: quelli che salvò.
La Toñita II ha tre anni. "Cioè, ne ha compiuti due e va per i quattro?", mi affretto a dire prima della spiegazione di Elena. Lei ride. Voglio dire, Elena ride. Perché la Toñita II sta lanciando delle urla degne di nota. È che, con uno sguardo civettuolo [il numero 7 del mio esclusivo "catalogo" di sguardi seduttori] le ho chiesto un bacio. La Toñita II non ha
neppure detto "pizzica tanto" (cioè, non è una versione migliorata), semplicemente si è messa a piangere con tale veemenza che ha già al suo fianco un gruppo di "insurgentas" che le offrono caramelle, un sacchetto con un muso di coniglio, anche se a me sembra di tlacuache [mammifero marsupiale, ndt.], il sacchetto, si capisce, e stanno persino cantandole la canzoncina del capretto, una canzonetta che gode di un inusitato successo tra i bambini e le bambine zapatiste.
"Non ti vuole", mi dice la maggiore Irma facendo piovere sul bagnato. Io rispondo: "Bah, è pazza di me", e fingo di non avere il cuore a pezzi.
Uscendo dallo spaccio, Rolando mi dà uno di quegli aghi chiamati "da cappotto" e un rotolo di nylon.
Nella capanna del comando generale dell'Ezln rifletto dubbioso...
Se non so qual è la velocità del sogno, non so nemmeno se ricucirmi gli stivali o il cuore.
[Continua...]
Dalle montagne del Sudest messicano.
Subcomandante insurgente Marcos.
Messico, settembre 2004, 20 y 10.

Seconda parte: Scarpe, scarpe da tennis, ciabatte, sandali, pantofole
Settembre è il nono mese dell'anno e la Luna si presenta con una pancia come se fosse di nove mesi. E perfino arrossisce un po' quando si lascia cadere ad occidente. La pioggia e le nuvole si sono affacciate, ma prese dalla pigrizia sono rimaste dietro la montagna, quella che si alza ad oriente. In basso, nel registratore, Tania Libertad canta quella che dice "non lo impediranno (...), nonostante l'autunno cresceremo". Confusa nelle ombre, l'ombra scrive una lettera. Dopo "Esercito Zapatista eccetera" e la data, settembre 2004, si legge ...
A: Pierluigi Sullo.
Direzione del settimanale Carta.
Italia, continente europeo, pianeta Terra.
Pedro Luis, fratello:
Ricevi un abbraccio dalle montagne del sudest messicano. Suppongo che ti sembrerà strano il "Pedro Luis", ma è che sono stato contagiato dal "modo" dei compagni di "zapatizzare" i nomi, quindi scrivo "Pedro Luis" per "Pierluigi".
Bene, ho ricevuto la lettera che hai scritto e che non hai mandato. Cioè, ho ricevuto la lettera su Carta ["carta" in spagnolo significa "lettera", diventa un gioco di parole, ndt.]. Mi spiego: mi hanno mandato una fotocopia della lettera apparsa su Carta (26 agosto-1 settembre 2004, anno VI, numero 31). Siccome il mio italiano non riesce nemmeno a somigliare all'"itagnolo" dei "turbineros e turbineras", che anni fa hanno lavorato duramente per dare luce a La Realidad (la turbina finanziata e costruita nel villaggio-simbolo degli zapatisti da associazioni, enti locali e università italiani, ndt.), ho dovuto chiedere che qualcuno mi facesse il favore di tradurla.. E lo hanno fatto ma in una neo lingua che qua chiamiamo "itazapagnolo", che, se la memoria non m'inganna, inaugurò la Vanessa (una compagna di Roma molto legata alla storia degli zapatisti, ndt.), quando, sempre disobbediente, ha vissuto anni nella realtà zapatista. Stando così le cose, ho dovuto ricorrere ad alcuni dizionari che ci avevano inviato tempo fa (non mi ricordo, credo fossero stati Mantovani o Alfio) (Ramon Mantovani, deputato di Rifondazione, e Alfio Nicotra, responsabilke pace del partito, ndt.). Dunque, prima si sono dovuti cercare e trovare i dizionari che, com c'era da aspettarsi, livellano la gamba di un tavoli di uno dei comandi generali dell'unico "ezetaelene". Cioè, ci ho messo tempo ad intuire, più che a sapere, quello che diceva la lettera di Carta.
Forse mi sbaglio, ma sono riuscito a capire che l'obiettivo della tua missiva è salutarci... ed esporre problemi.
Il genere epistolare è, secondo la mia umile opinione, uno dei mezzi migliori per il dibattito (un altro, ancora migliore, è la pratica politica).
Non lo dici apertamente, ma chiunque potrà rendersi conto che, in fondo, la tua lettera espone, in questo caso dall'Italia ribelle, lo stesso problema della velocità del sogno. Ed anche se non lo dici in maniera esplicita, dall'Italia che lotta, cioè che sogna, anche tu rispondi: "Non lo so".
Bene, ai problemi che esponi io potrei rispondere con l'assioma dell'ineffabile e grande (quanto a ego) Don Durito de La Lacandona: "Non c'è problema sufficientemente
grande che non si possa superare."
Benché la ritenga una ricetta eccellente (a me ha dato buoni risultati più di una volta), credo sinceramente che quello che esponi non cerchi una soluzione, bensì una discussione.
Il "che fare in Italia?" è, in effetti, un problema. E a mio modo di vedere, fa parte del problema "che fare nel mondo? ".
Bene, la risposta di noi zapatisti è... "non lo sappiamo."
So che non ti aspettavi qualcosa di diverso da parte nostra, conoscendoci bene come ci conosci. Tuttavia, dalla nostra terra e dalla nostra lotta possiamo dire quanto segue:
Primo. Nel Messico di oggi, tutti i politici, anche quelli che sono in testa nei sondaggi, nei titoli dei notiziari o nel numero di manifestanti, indipendentemente dal colore della retorica che innalzano o dal simbolo della loro organizzazione partitica, godono dell'assoluta sfiducia di noi zapatisti, del nostro scetticismo e della nostra incredulità. Basandosi unicamente sulle loro parole, promesse, intenzioni, cifre, statistiche, studi di opinione, non otterranno assolutamente niente buono da noi. Niente, neppure il beneficio del dubbio. Come il capo dell'Ejercito Libertador del Sur, generale Emiliano Zapata, nei confronti di Francisco I. Madero [Marcos allude a un episodio centrale della Rivoluzione messicana di inizio Novecento, ndt.], la nostra ostilità verso i politici del centro sarà regola invariabile: e, come
Emiliano Zapata di fronte alla poltrona presidenziale, continueremo a voltare le spalle al Palacio Nacional [sede della presidenza, ndt.] e a chi aspira a sedersi su quella poltrona. E la stessa cosa vale per l'autodenominato "Congresso dell'Unione" e per il circense Potere Giudiziario della Federazione.
Secondo. Nel caso specifico dei partiti politici che si autoproclamano di sinistra riconosciuti in Messico (ma che, non bisogna dimenticarlo, non sono le uniche organizzazioni politiche di sinistra che esistono nel nostro paese), non possiamo trattenere un sorriso amaro quando i loro funzionari di partito, governanti, deputati, senatori e portaborse stipendiati, rinfacciano a Vicente Fox [attuale presidente del Messico, di destra, ndt.] il non compimento della sua promessa, fatta in campagna elettorale, di risolvere il "problema" del Chiapas in 15 minuti. Noi non dimentichiamo che quelli che oggi criticano, sono gli stessi che hanno votato a favore di una legge [quella su dirittie cultura indigeni, per esigere la quale gli zapatisti intrapresero nel 2001 il viaggio a Città del Messico, ndt.] che, oltre a non adempiere un atto di elementare giustizia, contravveniva fondamentalmente al reclamo dei popoli indios del Messico e di milioni di persone nel nostro paese ed in altre parti del pianeta.
Sono gli stessi che incoraggiano i gruppi paramilitari ar osteggiare ed aggredire le comunità zapatiste. Sono gli stessi che si impegnano nel compiacere una destra, (la si chiami alta gerarchia ecclesiale o imprenditoriale) che, bisogna dirlo, non sente nessuna attrazione per loro. Sono gli stessi che, sotto il braccio, portano i piani economici e polizieschi che sono stati studiati nei consigli di amministrazione dell'avidità internazionale.
Con tutto questo, non possiamo avallare, col nostro silenzio, le porcherie giuridiche con le quali si vuole impedire che chi governa ora Città del Messico [Manuel López Obrador, del Prd, partito di centrosinistra, ndt.], nel 2006 si presenti alle elezioni per la Presidenza del paese. Ci sembra un'azione illegittima, mal congegnata per fallacie legali, che attenta al diritto dei messicani di decidere se al governo debba andare uno o un altro o nessuno. La concretizzazione di un imbroglio di tale natura significherebbe, né più né meno, la messa in mora dell'articolo 39 della Costituzione messicana, che sancisce il diritto del popolo di decidere la sua forma di governo. Sarebbe, per dirla chiara, un colpo di Stato "morbido".
Dicendo questo, non ci mettiamo dalla parte di una persona né di un progetto di governo. Tanto meno questo si traduce in appoggio ad un partito che non solo non è di sinistra e non è progressista, ma non è neppure repubblicano. Semplicemente, ci mettiamo dalla parte della storia di lotta del nostro popolo.
Terzo. Le elezioni passano, i governi passano. La resistenza resta quello che è, un'alternativa in più per l'umanità e contro il neoliberismo. Niente di più, ma niente di meno.
Tuttavia, coerenti con l'avversione che professiamo verso i dogmi, ammetteremo sempre che possiamo sbagliarci e che, in effetti, potrebbe essere che, come predicano adesso gli impiegatucci di moda, sia necessario, urgente, imprescindibile, arrendersi incondizionatamente nelle braccia di chi, dall'alto, promette cambiamenti che si possono ottenere solo dal basso.
Possiamo sbagliarci. Quando ce ne renderemo conto perché la dura realtà si interporrà sulla nostra strada, saremo i primi a riconoscere questo equivoco davanti a tutti, a favore e contrari. Sarà così perché, tra le altre cose, noi crediamo che l'onestà di fronte allo specchio sia necessaria per tutti quelli che, a parole o nei fatti, si impegnano nella costruzione di un mondo nuovo.
In ogni caso, noi mettiamo la vita nelle nostre certezze e nei nostri equivoci. Credo sinceramente che, dall'alba del primo gennaio del 1994, ci siamo guadagnati il diritto di decidere noi stessi il nostro cammino, la sua cadenza, la sua velocità, la compagnia continua o sporadica, le tappe e, soprattutto, la suo destinazione.
Non cederemo questo diritto. Siamo disposti a morire per difenderlo.
Quarto. Continueremo a fare quello che crediamo sia il nostro dovere fare. E questo indipendentemente dal "rating" ottenuto dalle nostre azioni, dal posto che occupiamo nei notiziari, o dalle minacce e profezie che, da uno e dall'altro lato dello spettro politico, ritengono opportuno lanciarci ogni volta che non facciamo quello che loro vogliono che facciamo o che non diciamo quello che loro vogliono che diciamo (cosa che succede sempre).
Non ci uniremo allo schiamazzo isterico della classe politica e dei suoi fans nelle rubriche di "analisi politica". Quelli che vogliono imporre, sempre dall'alto, un'agenda che non ha niente a che vedere con quello che succede in basso nel nostro paese, precisamente lo smantellamento implacabile dei fondamenti della sovranità nazionale.
Non manipoleremo nemmeno il calendario affinché il 2006 [anno di elezione presidenziale, in Messico, ndt.] anticipi la sua incertezza, la sua fiera delle vanità, il suo cinico spreco di risorse e di stupidità. Tanto meno sarà la nostra linea di azione quella di chi vorrebbe che noi proponessimo i nomi di carcerati, desaparecidos e morti, mentre loro propongono i nomi nelle liste plurinominali [elettorali, ndt.].
Quinto. Questo non vuol dire che non ascoltiamo. Lo facciamo e continueremo a farlo. Da tutte le parti del mondo ci arrivano parole di incoraggiamento e di critica, consigli ed avvertimenti, adesioni e rifiuti. Ascoltiamo tutto e lo conserviamo nel cuore collettivo che siamo. Chiunque in qualsiasi parte del mondo può stare sicuro che gli zapatisti lo ascolteranno.
Ma una cosa è ascoltare ed un'altra è obbedire.
Le "polemiche" se gli zapatisti siano rivoluzionari o riformisti, "light" o "heavy", ingenui o maliziosi, buoni o cattivi, non godono della nostra attenzione e, come le zanzare nelle lunghe notti nelle montagne del sudest messicano, non è quel che ci tiene svegli.
Nelle terre zapatiste non comandano le multinazionali, né il Fondo monetario internazionale, né la Banca mondiale, né l'imperialismo, né l'impero, né i governi di uno o dell'altro segno. Qua le decisioni fondamentali le prendono le comunità. Non so come si chiama questo. Noi lo chiamiamo "zapatismo."
Ma il nostro non è un territorio liberato, né una comune utopica. Neanche il laboratorio sperimentale di uno sproposito o il paradiso della sinistra orfana.
Questo è un territorio ribelle, in resistenza, invaso da decine di migliaia di soldati federali, poliziotti, servizi di intelligece, spie di diverse nazioni "sviluppate", funzionari con funzioni di contro-insurrezione ed opportunisti di ogni tipo. Un territorio composto da decine di migliaia di indigeni messicani vessati, perseguitati, colpiti perché si rifiutano di smettere di essere indigeni, messicani ed esseri umani, cioè cittadini del mondo.
Sesto. Sul resto del pianeta, la nostra ignoranza è enciclopedica (in realtà occuperebbe più volumi che le opere complete della parola esterna ed interna dei neozapatisti, la quale, sia detto per inciso, è abbondante) e poco o niente possiamo dire su organizzazioni politiche di sinistra che lottano o dicono di lottare sotto altri cieli.
Lì, come dovunque, preferiamo guardare verso il basso, verso movimenti e tentativi di resistenza e di costruzione di alternative. Ci voltiamo a guardare verso l'alto solo se una mano dal basso ci indica questa direzione.
Settimo. Con le nostre goffaggini o successi, definizioni o vaghezze, stiamo cercando, solo cercando, ma mettendoci la vita, di costruire un'alternativa. Piena di imperfezioni e sempre incompleta, ma è la nostra alternativa.
Se siamo arrivati fino a dove siamo arrivati non è stato, tuttavia, per la nostra sola capacità o decisione, bensì per l'appoggio di uomini e donne di tutto il mondo che hanno compreso che in queste terre non c'è un mucchio di bisognosi, avidi di elemosine o di pietà, ma esseri umani che, come loro, aspirano e lavorano per un mondo migliore, un mondo che contenga tutti i mondi.
Credo che uno sforzo così meriti la simpatia e l'appoggio di ogni persona onesta e nobile nel mondo.
E credo che, il più delle volte, questa simpatia ed appoggio trovino la loro faccia migliore nella lotta che altri intraprendono o conducono nelle loro rispettive realtà, qualunque sia la loro cultura, la loro lingua, la loro bandiera, il loro tipo di calzatura, scarpe, scarpe da tennis, ciabatte, sandali o pantofole.
In questo senso, nella nostra geografia, sono più vicine alle comunità zapatiste realtà che le mappe indicano distanti.
Così, è più vicino a noi l'Europa del basso: l'Italia disobbediente e dell'autogestione; la Grecia che comunica con segnali di fumo; la Francia delle ciabatte e dei senza documenti e senza tetto, ma con dignità; la Spagna insorta e solidale; l'Euzkal Herria che resiste e non si arrende; la Germania ribelle; la Svizzera impegnata; la Danimarca compagna; la Svezia perseverante; la Norvegia coerente; la Patria negata ai kurdi; l'Europa marginale in cui soffrono gli immigrati; tutta l'Europa dei giovani che si rifiutano di comprare le azioni nelle borse del cinismo... e le donne messicane indigene mazahuas.
Ribellioni e resistenze che sentiamo più vicine delle interminabili distanze che ci separano dalla superba città di San Cristóbal de Las Casas e dai partiti politici che parlano con la sinistra ed agiscono con la destra.
Bene, per il momento è tutto, compagno Pedro Luis.
Credimi, non mi dispiace se, per quello che ti scrivo corro il rischio "di essere giudicato come uno che delira, che non vede la realtà" [Marcos cita la lettera di Carta, ndt.]. Sia come sia, il problema fondamentale resta in sospeso, cioè quello di chiarire qual è la velocità del sogno.
In attesa della soluzione, ricevi un abbraccio e la prossima volta che scrivi, insieme alla lettera su Carta, manda una traduzione, anche in "itagnolo".
Salute, e che lo schiamazzo che viene dall'alto non impedisca di ascoltare il mormorio proveniente dal basso.
(Continua...)
Dalle montagne del sudest messicano.
Subcomandante insurgente Marcos.
Messico, settembre 2004. 20 y 10.

Terza parte: Piedi nudi
Il club delle mutue carezze.
Qual è la velocità del sogno?
Non lo so.
"Non lo so", queste tre parole dovrebbero essere più presenti nel repertorio di tutti, così obbligati come a volte ci sentiamo ad opinare su tutto e a sostituire opinioni con dogmi e ricette pronte ("verità", le chiamano).
Nel "club delle mutue carezze", ovvero nella selezionata intellettualità che, sui e dai mezzi di comunicazione di massa di destra (e da alcuni "di sinistra") si tiene lontana ("obiettiva", dicono) dalla realtà, da tempo la critica e il dibattito sono stati soppiantati dallo scandalo mediatico, dalla "neutralità" (che, alla fine, è più fondamentalista di Bush-bin Laden) e da profezie: non importa se non supportate da argomenti e che non si realizzano ("Dopo tutto, a chi importa la realtà?").
Cortigiani versatili alla periferia del Potere, questi intellettuali parlano di tutto, sono esperti di tutto. Nella loro filosofia istantanea e solubile ("andiamo in onda , consegno la mia collaborazione in pochi minuti, non c'è tempo di pensare a quello che si dirà-scriverà), questi neofilosofi della postmodernità, inseguendo le mode in continuo rinnovamento, imitano le pose e il metodo dei "grandi" pensatori, cioè astraggono e generalizzano. Ovvero suppongono e creano un modello, e poi lo applicano. Il resto? Nell'immondizia (cioè fuori dalla programmazione o dall'indice dell'articolo).
In più, gli intellettuali ed i comunicatori che fanno gli analisti politici di destra (e non pochi di "sinistra"), si ergono a giudici, dettano sentenze, e aspettano, comodamente seduti nell'accademia o nella sala stampa, che la realtà si trasformi nel boia che esegue la sentenza.
Se il "successo" della filosofia politica reazionaria, cioè quella dell'analista di destra, sta nella sua capacità di "giustificare" un'azione, quello di coloro che predicano dal pulpito dei mezzi di comunicazione sta nel trivializzare l'ingiustizia. È proponendo emozioni riflesse e non ragioni, che i comunicatori affrontano la guerra, la povertà, le catastrofi naturali, i soprusi dei governi, i crimini e i sempre di più frequenti germogli di scontento popolare.
Dopo tutto, i sentimenti possono essere fugaci tanto quanto le questioni "più importanti" dei notiziari. Così, si disperano per la mancanza di immagini. Invece ci sono, e succede che molte di queste suscitino riflessioni, e diciamo che la riflessione profonda non è il forte della comunicazione di massa.
La velocità dell'incubo.
È con la riflessione teorica (che non è sinonimo di masturbazione mentale), il dibattito (che non è il ping-pong di insulti), lo scambio di esperienze (che non è l'interscambio di ricette pronte), che, se non si può sapere qual è la velocità del sogno, si può, invece, calcolare la velocità dell'incubo. Dalla nostra esperienza, e da quello che vediamo al piano di sopra globalizzato, abbiamo imparato che è la stessa cosa che abbassare le mani, arrendersi, rassegnarsi, assumere la comoda e stupida posizione di spettatore, abbandonare ideali in nome di un pragmatismo alla fin dei conti sterile e deformante.
Se il Potere mondiale rende un omaggio morboso all'11 settembre e all'11 marzo [a Madrid, ndt.], è per usarli come pretesto dell'incubo che esso globalizza, e ci vuole "vendere" il sogno secondo cui il suo potere militare e poliziesco eviterà che si ripetano altri "undici" nel calendario… seminando il suo terrore in altre date e in tutto il mondo.
Ma, di fronte agli "11" del terrore di una e dell'altra parte, c'è, per esempio, un "15", quello del febbraio del 2003. In quella data più di 30 milioni di persone di oltre 100 nazioni del mondo si mobilitarono contro la guerra. Molti diranno che è stato inutile, che la guerra è scoppiata comunque. Ma si dimentica che il raccolto della semina del basso non è mai immediato. E le mobilitazioni non sempre finiscono quando chiudono i notiziari. Il più delle volte diventano apprendistato ed organizzazione. Il Potere può ben convivere con dimostrazioni massicce di rifiuto che finiscono quando si cambia canale; ma non può stare tranquillo quando questo rifiuto si organizza, tanto meno quando cresce.
Perché, in basso, imparare è crescere.
Le menzogne, per quanto "rating" ostentino, normalmente provocano indigestione e vomito. Le verità, certamente, provoca mal di stomaco, ma questo normalmente si allevia facendo qualcosa.
Perché, sebbene le bugie siano irrimediabili, le verità hanno un rimedio.
Di fronte all'incubo, non basta svegliarsi. La veglia può fiorire nel sogno.
L'impreciso sogno zapatista.
Ma, quale è la velocità del sogno?
Non lo so.
Nel nostro sogno, il mondo è un altro, ma non perché qualche "deus ex machina" ce lo regala, bensì perché lottiamo, nella permanente veglia della nostra veglia, perché in quel mondo sorga l'alba.
Noi zapatisti sappiamo esattamente che non avremo, né noi né nessuno, la democrazia, la libertà e la giustizia di cui abbiamo bisogno e che meritiamo, fino a che, con tutti, la conquisteremo per tutti. Con gli operai, con i contadini, con gli impiegati, con le donne, con i giovani. Con quelli che fanno funzionare le macchine che fanno produrre i campi, che danno vita alle strade. Con quelli che, con il loro lavoro, ogni giorno precedono il sole. Con quelli che da sempre producono la ricchezza ed oggi consumano solo la povertà.
La nostra lotta, cioè, il nostro sogno, non finisce.
Tuttavia, nella veglia di tutti i giorni ci sforziamo di non lasciare in eredità a coloro che seguiranno, uno spazio di rancore e di ansia distruttiva. In ogni momento ribadiamo la nostra decisione di non imporre a nessuno (né a noi stessi) - anche con l'impunità dell'assenza definitiva (toccati dalla bacchetta magica della morte, quella che trasforma in perfezione ciò che non è altro che un mucchio di contraddizioni) -, una serie di cinismi mascherati da "ragioni politiche" o da fondamentalismi camuffati da "neo filosofia" universale ed eterna.
Lo zapatismo non è una guida per l'azione.
Ci impegniamo ogni minuto di ogni ora di ogni giorno, a non predicare né promuovere il culto del "tutto ha un valore" che normalmente è solo un alibi per giustificare il fatto che, nel "tutto", si comprende il tradimento dei principi.
La ragione che ci muove è una ragione etica. In essa, il fine sta nei mezzi.
Vogliamo, e per questo lottiamo quotidianamente contro tutto (noi stessi compresi), posare un'altra pietra per la nostra casa, quella che vogliamo tutta porte e finestre, da cui si possa entrare, si possa uscire, guardare ed essere guardati, senza altro limite che la voglia di fare una o l'altra cosa. Una casa dove non sia un dolore essere donna, o bambino, o anziano, o indigeno, o giovane, o gay, o lesbica, o transessuale, o lavoratore del campo e della città. Infine, un posto dove non sia una vergogna appartenere all'umanità.
Vogliamo continuare a lottare per come siamo, come zapatisti. Così il mondo nuovo non nascerà solo dal nostro passo, ma anche da esso.
Vogliamo, infine, sparire. Per questo, e non per altro, siamo apparsi.
Per questo motivo, nel nostro sogno noi non ci siamo.
Piedi nudi.
Qual è la velocità del sogno?
Non lo so.
Ma ora, in quest'alba di settembre, senza altra compagnia di un vento gelato, con la pioggia che tamburella impaziente sul soffitto della capanna, e sommando alla nuvola che porto quella che fuori riposa, comprendo che, forse, è la stessa velocità con la quale, nel mio sogno, l'ombra che io sono svanisce nell'altra e gentile ombra delle gambe di Lei, mentre con le mie labbra scrivo promesse impossibili sulle piante dei suoi piedi nudi…
Dalle montagne del Sudest Messicano.
Subcomandante Insurgente Marcos.
Messico, Settembre 2004. 20 y 10.
Post scriptum. Qui finisce il programma "scientifico" del Sistema Zapatista di Televisione Intergalattica. Dopo uno spot anti-commerciale, continueremo con la nostra programmazione. Non cambiate. (Sullo schermo, cioè sul cartoncino, appare: "Sandali Yepa-Yepa, l'unico sandalo g-l-o-b-a-l-i-z-z-a-t-o, lancia sul mercato il suo nuovo modello "Pozol Agrio" - produzione limitata - ad un prezzo da sogno! Non si accettano carte di credito né contanti. Autorizzazione della Giunta di Buon Governo numero 69. Con restrizioni").

(Traduzione a cura del Comitato Chiapas "Maribel", Bergamo)

Riceviamo e Pubblichiamo.



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