LA LOCOMOTIVA da "La grande famiglia" (7'13")
LA LOCOMOTIVA
da "La grande famiglia" (7'13")
Undici musicisti
implicati a mandare a doppia velocità la celebre canzone di Francesco
Guccini.
Dodici gli strumenti usati, quaranta le corde complessivamente toccate per ottenere
le sonorità, quarantaquattro i canali di registrazione lasciati aperti
nei mixer dell'Esagono, due le voci che si alternano al canto, quattro le tonalità
attraversate dalla canzone.
Oltre ai nostri vagabondi pertecipano Marino e Sandro Severini (GANG,
voce e chitarre), Filippo Chieli (coi Ramblers nei primissimi tempi,
collaborazioni in Riportando tutto a casa e La grande famiglia, suona la viola).
"Campionamenti" musicali
:
primo e ultimo strum. : tratto da "Transmetropolitan" dei Pogues,
che loro hanno probabilmente preso da un traditional irish;
secondo strum. (dopo il verso "trionfi la giustizia proletaria..."):
aria tradizionale irlandese.
Non so che viso avesse,
neppure come si chiamava,
con che voce parlasse, con quale voce poi cantava,
quanti anni avesse visto allora,
di che colore i suoi capelli,
ma nella fantasia ho l'immagine sua:
gli eroi sono tutti giovani e belli.
gli eroi sono tutti giovani e belli.
gli eroi sono tutti giovani e belli.
Conosco invece l'epoca dei fatti, qual era il suo mestiere:
i primi anni del secolo, macchinista, ferroviere
i tempi in cui si cominciava
la guerra santa dei pezzenti:
sembrava il treno anch'esso un mito di progresso,
lanciato sopra i continenti.
lanciato sopra i continenti.
lanciato sopra i continenti.
E la locomotiva sembrava fosse un mostro strano,
che l'uomo dominava con il pensiero e con la mano:
ruggendo si lasciava indietro
distanze che sembravano infinite,
sembrava avesse dentro un potere tremendo,
la stessa forza della dinamite.
la stessa forza della dinamite.
la stessa forza della dinamite.
Ma un'altra grande forza spiegava allora le sue ali:
parole che dicevano "gli uomini sono tutti uguali",
e contro ai re e ai tiranni
scoppiava nella via
la bomba proletaria, e illuminava l'aria
la fiaccola dell'anarchia.
la fiaccola dell'anarchia.
la fiaccola dell'anarchia.
Un treno tutti i giorni passava per la sua stazione:
un treno di lusso, lontana destinazione.
Vedeva gente riverita,
pensava a quei velluti, agli ori,
pensava al magro giorno della sua gente attorno,
pensava a un treno pieno di signori.
pensava a un treno pieno di signori.
pensava a un treno pieno di signori.
STRUM
(si alza un tono)
Non so che cosa accadde, perché prese la decisione.
Forse una rabbia antica, generazioni senza nome
che urlarono vendetta,
gli accecarono il cuore,
dimenticò pietà, scordò la sua bontà,
la bomba sua la macchina a vapore.
la bomba sua la macchina a vapore.
la bomba sua la macchina a vapore.
(si alza un semitono)
E un giorno come gli altri, ma forse con più rabbia in corpo,
pensò che aveva il modo di riparare a qualche torto:
salì sul mostro che dormiva,
cercò di mandar via la sua paura,
e prima di pensare a quel che stava a fare,
il mostro divorava la pianura.
il mostro divorava la pianura.
il mostro divorava la pianura.
(si alza un tono)
Correva l'altro treno ignaro, quasi senza fretta:
nessuno immaginava di andare verso la vendetta.
Ma alla stazione di Bologna
arrivò la notizia in un baleno:
"Notizia di emergenza, agite con urgenza,
un pazzo si è lanciato contro al treno!"
un pazzo si è lanciato contro al treno!"
un pazzo si è lanciato contro al treno!"
Ma intanto corre, corre, corre la locomotiva,
e sibila il vapore e sembra quasi cosa viva,
e sembra dire ai contadini curvi,
il grosso fischio che si spande in aria:
"Fratello non temere, che corro al mio dovere!
Trionfi la giustizia proletaria!"
Trionfi la giustizia proletaria!"
Trionfi la giustizia proletaria!"
E corre corre corre corre sempre più forte,
e corre, corre, corre, corre verso la morte,
e niente ormai può trattenere
l'immensa forza distruttrice,
aspetta sol lo schianto e poi che giunga il manto
della grande consolatrice.
della grande consolatrice.
della grande consolatrice.
La storia ci racconta come finì la corsa:
la macchina deviata lungo una linea morta.
Con l'ultimo suo grido d'animale
la macchina eruttò lapilli e lava,
esplose contro il cielo, poi il fumo sparse il velo,
lo raccolsero che ancora respirava.
lo raccolsero che ancora respirava.
lo raccolsero che ancora respirava.
Ma a noi piace pensarlo ancora dietro al motore,
mentre fa correr via la macchina a vapore,
e che ci giunga un giorno
ancora la notizia
di una locomotiva come una cosa viva,
lanciata a bomba contro l'ingiustizia!
lanciata a bomba contro l'ingiustizia!
lanciata a bomba contro l'ingiustizia!
Questa canzone
si richiama a un fatto realmente accaduto il secolo scorso: protagonista il
fuochista anarchico Pietro Rigosi, che si impadronì di una locomotiva e la mando
a schiantarsi contro una vettura in sosta nella stazione di Bologna. Miracolosamente
si salvò, ma non svelò mai il mistero di quella folle corsa.
(tratto da "Amico treno" dell'aprile 1993)
Quando i concerti si avviano alla fine, e le richieste si fanno più insistenti,
dopo i successi di tante stagioni, è ormai rituale per Francesco Guccini chiudere
con la sua ballata più popolare: la locomotiva. Dopo oltre vent'anni, con tutto
quello che è avvenuto nel frattempo, questa canzone dal sapore libertario, continua
a smuovere qualcosa negli animi di giovani e meno giovani, in quella parte che
vuole, malgrado tutto, continuare a credere. E quell'immagine, sia pure un po'
sinistra, della locomotiva "come una cosa viva lanciata a bomba contro l'ingiustizia"
mantiene il suo fascino col passare delle generazioni. E questa una ballata
che si richiama a un fatto realmente accaduto il secolo scorso (esattamente
il 20 luglio 1893) e, per quanto riguarda i fatti, vi si attiene fedelmente.
Si tratta di un episodio singolare, rimasto se non unico abbastanza raro negli
annali ferroviari. La curiosità di saperne di più ci ha spinto a qualche ricerca,
sulla stampa dell'epoca e negli archivi delle Ferrovie.
"Il disastro di ieri alla ferrovia - l'aberrazione di un macchinista", titola
il quotidiano bolognese “Il Resto del Carlino” del 21 luglio 1893. Nell'articolo
si legge:
"Poco prima delle 5 pomeridiane di ieri, l'Ufficio Telegrafico della stazione
(di Bologna, ndr) riceveva dalla stazione di Poggio Renatico un dispaccio urgentissimo
(ore 4,45) annunziante che la locomotiva del treno merci 1343 era in fuga da
Poggio verso Bologna. Lo stesso dispaccio era stato comunicato a tutte le stazioni
della linea, perché venissero prese le disposizioni opportune per mettere la
locomotiva fuggente in binari sgombri dandole libero il passo in modo da evitare
urti, scontri o disgrazie. [...] Capo stazione, ingegneri e personale del movimento
furono sossopra e chi diede ordini, chi si lanciò lungo la linea verso il bivio
incontro alla locomotiva che stava per giungere. Non si sapeva ancora se la
macchina in fuga era scortata da qualcuno del personale; e solo i telegrammi
successivi delle stazioni di San Pietro in Casale e Castelmaggiore, che annunziavano
il fulmineo passaggio della locomotiva, potevano constatare che su di essi stava
un macchinista e un fuochista. Ma la corsa continuava e la preoccupazione alla
ferrovia cresceva [...]“
All'epoca già confluivano alla stazione di Bologna quattro importanti linee
ferroviarie e i binari di stazione erano soltanto cinque. In quell'ora i binari
erano ingombri per treni in arrivo e in partenza Non c'erano sottopassaggi.
La inevitabile concisione dei dispacci telegrafici impedì di comprendere chiaramente
la situazione. Per evitare guai maggiori la locomotiva venne instradata sul
binario cosiddetto "2 numeri", un binario tronco sulla destra, più o meno dove
oggi c'è il fabbricato delle Poste. Allora c'erano le tettoie della gestione
merci.
”Alle 5,10 [la locomotiva] entrava dal bivio e passava davanti allo scalo,
fischiando disperatamente, con una velocità superiore ai 50 km. Sulla macchina
c'era un uomo che, invece di dare il freno, cercare di fermare, metteva carbone....
Era un uomo che correva, che voleva correre alla morte! Il personale lungo la
linea agitando le braccia, gridando, gli faceva cenno di fermare, di dare il
freno; taluno gli urlò di gettarsi a terra, ma egli rimaneva imperterrito nella
locomotiva. Un esperto macchinista, il Mazzoni, che era lungo la linea e lo
vedeva correre incontro a morte sicura, gli gridò: "buttati a terra!"; ma il
giovanotto - che giovane era lo sciagurato - dalla banchina a lato della piazza
tubolare della caldaia tenendosi alla maniglia di ottone, si portò sul davanti
della locomotiva sotto il fanale di fronte, attaccato sempre alla maniglia e
colla schiena verso la stazione dov'era il pericolo.”
La locomotiva (della quale il giornale ci dà anche il numero di matricola: era
la 3541) andò quindi a sbattere contro la vettura di prima classe ed i sei carri
merci che si trovavano in sosta sul binario tronco alla velocità di 50 chilometri
orari.
"Al momento dell'urto egli era sulla fronte della macchina e i presenti che
lo videro esterrefatti passare dinanzi a loro affermano che proprio al momento
dell'urto egli si sporse in fuori, volgendo la testa verso la vettura, contro
alla quale andava a dar di cozzo. L'urto, disastroso per la macchina e i carri,
fu tremendo per l'uomo. Egli rimase preso fra la macchina e il vagone di la
classe schiacciato orribilmente. Accorsero funzionari delle ferrovie, di P.S.,
guardie, personale viaggiante e manovali e il disgraziato fu tosto riconosciuto.
È certo Pietro Rigosi di Bologna, di anni 28, fuochista da parecchi anni
e buon impiegato... a Poggio Renatico, mentre il macchinista Rimondini Carlo
era sceso un momento, il Rigosi aveva sganciato la locomotiva del treno merci
e poi l'aveva lanciata a tutta velocità legando la valvola del fischio, per
modo che destò l'allarme per tutta la corsa. Avrebbe potuto pentirsi durante
il tragitto e dare il freno (che funzionava bene anche dopo la catastrofe) ma
egli non volle. Probabilmente un'improvvisa alterazione di cervello che lo rese
crudele contro se stesso, perché, per quanti pensieri di famiglia egli avesse,
non giustificavano certo un tentativo di suicidio che poteva costare la vita
a molte altre persone.”
Il fatto ebbe una grande risonanza su tutta la stampa nazionale. Vi fu chi immaginò
che il macchinista avesse letto “La bête humaine” di Emile Zola, restandone
suggestionato al punto da imitarne le vicende. Altri mossero critiche alle ferrovie
per non aver provveduto ad insabbiare un binario allo scopo di far fermare la
locomotiva senza danni. Un lettore del Resto del Carlino mandò un telegramma
al giornale sostenendo che, inviando incontro alla locomotiva in fuga, una macchina
di maggiore potenza, questa avrebbe potuto, una volta avvistatala, invertire
la marcia e frenarne la corsa gradualmente. Tutti i commenti concordavano sulla
imprevedibilità del gesto.
Pietro Rigosi veniva indicato dal giornale come "fuochista da parecchi anni
e buon impiegato". Sposato, padre di due bambine, di tre anni e di dieci mesi.
Nessuna indagine sulle sue condizioni economiche e familiari consentì di capire
quali motivi lo avessero spinto. Qualche debito di importo non rilevante, ma
al tempo era abbastanza frequente, nessuna oscura vicenda personale, nessun
dissapore familiare. Sorprendentemente il nostro uomo non rimase ucciso in quello
scontro terribile nel quale aveva cercato deliberatamente la morte mettendosi
fra la locomotiva e la vettura ferma. Evidentemente l'urto fortissimo lo fece
schizzare via prima che i due veicoli si incastrassero l'uno nell'altro. Gli
venne amputata una gamba, il viso rimase deformato dalle cicatrici, dovette
sopportare una lunga degenza all'ospedale, ma dopo circa due mesi fece ritorno
a casa. Inutilmente i giornalisti e i curiosi che gli facevano visita tentarono
di chiedergli i motivi che lo avevano spinto ad un gesto tanto clamoroso. A
nessuno venne risposto: il Rigosi si mantiene abbastanza tranquillo, parla con
chi va a fargli visita, ma si astiene sempre ad accennare alle cause e al movente
del suo atto, cambiando discorso o non rispondendo ogni volta che gli si richiede
per quale ragione lanciò la sua macchina a tutto vapore da Poggio a Bologna
e perché cercasse di morire. Un'unica frase, che il cronista del Carlino riprende
da un articolo della Gazzetta Piemontese, sembra gli sia sfuggita subito dopo
il ricovero: "Che importa morire? Meglio morire che essere legato!"
Un vero personaggio, Pietro Rigosi, fuochista delle Strade Ferrate Meridionali
- Rete Adriatica, matricola 42918. E comprensibile che questo suo atteggiamento,
dignitoso e ribelle insieme, abbia ispirato Francesco Guccini. Abbiamo perciò
fatto qualche ricerca d'archivio per saperne di più. Non era un ferroviere modello.
Non tanto perché veniva spesso punito. Per i ferrovieri dell'esercizio allora
ad ogni minimo errore corrispondeva una sanzione economica. Nel caso di Rigosi
Pietro si tratta però di mancanze di omissione, negligenza, o diverbi con colleghi
e superiori. Tutti chiari segni di affaticamento e insofferenza all'ambiente.
Multa di £ 5 per aver risposto "con modo sconveniente al Capo Deposito di Piacenza
mentre questi taceva delle giuste osservazioni al suo Macchinista". Sospensione
per tre giorni dal soldo e dal servizio per essere "venuto a diverbio col Macch.
Baroncini Federico per futili motivi tra Mestre e Marano. Diede poi luogo ad
un deplorevole alterco sotto la tettoia della stazione di Padova". Tre mesi
prima del fatto era stato punito con "sospensione dal soldo e dal servizio per
giorni tre per aver preso in mala parte una frase detta per ischerzo da un macchinista
del Deposito di Milano e non a lui rivolta, provocando così un diverbio, seguito
da vie di fatto in stazione di Piacenza". Ma numerose sono le multe per mancata
presentazione al treno. "Mancò alla partenza dal treno 1008 del 7 agosto sebbene
avvisato il giorno prima e avanti alla partenza dallo svegliatore". Erano mancanze
che costavano care: dalle 3 alle 5 lire quando la paga giornaliera era di 2
lire e 50. Alcune multe riguardavano mancanze oggi incomprensibili: venne trovato
coricato nelle brande del dormitorio senza le prescritte lenzuola. I dormitori
dotati di docce erano rarissimi e i macchinisti erano costretti a ripulirsi
molto sommariamente prima di coricarsi. L'uso delle lenzuola da parte dei ferrovieri
si rendeva quindi obbligatorio per evitare che venissero insudiciate le brande.
C'è una vasta letteratura sulle pesanti condizioni di lavoro dei ferrovieri,
in particolare dei macchinisti, alla fine del secolo scorso. Turni ininterrotti
fino a trenta e anche quaranta ore consecutive, esposizione alle intemperie
su macchine non di rado senza alcun riparo o con ripari che risultavano del
tutto insufficienti, disciplina di tipo prussiano, tutto questo aggiunto ad
un mestiere già duro: ricordiamo che una corsa da Venezia a Bologna significava
per il fuochista spalare quaranta quintali di carbone. Non stupisce quindi che
la mortalità nella categoria fosse tanto alta che non più del 10% dei macchinisti
arrivava alla pensione. Forse fu tutto questo a spingere il nostro alla corsa
forsennata verso Bologna. Anche se non volle mai dirlo pubblicamente ci doveva
essere un rancore profondo in Pietro Rigosi verso la Società delle Strade Ferrate.
Qualche tempo dopo essere stato dimesso dall'ospedale, venne "esonerato dal
servizio per motivi di salute". Il Consorzio di Mutuo Soccorso gli liquidò un
sussidio di lire 308,13 e la Direzione delle Ferrovie ne dispose un secondo
"a solo titolo di commiserazione, di £ 150, pari a due mesi della paga che percepiva".
Al momento di ritirare il sussidio Pietro Rigosi si avvide che sul ruolo di
pagamento, che avrebbe dovuto firmare per ricevuta, stava la scritta come motivazione
"buona uscita". Tanto bastò per fargli rifiutare quella cifra di cui doveva
avere certamente un gran bisogno. Evidentemente nessuno doveva pensare che la
sua uscita dalle ferrovie fosse avvenuta in bontà di rapporti. Accettò la somma
solamente dopo che la motivazione di buona uscita venne sostituita con 'per
elargizione'. Anche l'atteggiamento della severissima Società delle Strade Ferrate
Meridionali fu, nell'occasione, stranamente indulgente. Il fatto aveva provocato
danni notevoli, tanto da venire citato nella relazione annuale agli azionisti
fra le cause che avevano limitato l'ammontare degli utili corrisposti. Nessuna
punizione per il ferroviere responsabile. Esonero per motivi di salute, invece
del licenziamento, e corresponsione di un sussidio non certo elevato, ma certamente
non dovuto. L'ipotesi della follia esonerava dalla necessità di approfondire
le cause e, con i pazzi e i fanciulli, è sempre opportuna la clemenza.
Per gli appassionati di cose ferroviarie, due parole sulla locomotiva protagonista
della vicenda. La 3541 faceva parte di una serie di 130 unità comprese nel gruppo
350 RA, che dal 1905 divenne Gr 270 PS. Poiché tutte le macchine, dapprima numerate
3501-3630 RA, divennero poi 2701-2830 FS ed infine 270.001-270.130 (sempre FS
ma numerazione definitiva), si può dedurre che la nostra 3541 RA sia stata riparata
e poi messa in servizio e, dopo il 1905 è probabile che abbia assunto la numerazione
provvisoria di 2741, e definitiva 270.041 FS. Tre assi accoppiati, lunghezza
di 15 metri per 43 tonnellate di peso, potenza 440 CV, velocità massima 60 km/ora,
del tipo cosiddetto bourbonnais, un modello che trovò in Italia grande impiego
per le sue doti di adattabilità ai percorsi tortuosi e con modesti carichi assiali.
Si trattava di una modesta macchina, destinata prevalentemente al traino dei
treni merci e omnibus nelle linee pianeggianti, che conobbe il suo momento di
gloria durante la Prima Guerra Mondiale e fu mantenuta in attività fino alla
seconda metà degli anni '20.