Vajont «Con la rabbia di allora»
Data: Venerdì, 09 ottobre @ 16:31:04 CEST
Argomento: Per Non Dimenticare


Con la rabbia di allora

Le testimonianze di coloro che hanno vissuto in prima persona certi fatti della nostra storia nazionale diventano ormai un rito. Valgono un giorno, una lettura, una curiosità, una presenza dei mass-media per ricordare giornalisticamente una data. Il giorno dopo tutto è nuovamente sepolto, allontanato dalla mente e dalla coscienza. Soprattutto se il «fatto» cui ci si riferisce è ancora di attualità malgrado gli anni trascorsi e inadempienze e tradimenti lo collocano a simbolo di ciò che siamo: una società che va chiacchierando alla deriva.
Dalla terribile notte del Vajont a oggi - vent'anni - è nata e cresciuta una generazione. Che del Vajont non sa nulla. Scrivo solo per questi giovani e anche per omaggio ai superstiti del disastro, dimenticati e incompresi. Lo faccio con rabbia, la stessa tremenda rabbia che provai la sera terribile del 9 ottobre 1963, al bivio di Ponte nelle Alpi, nel buio fitto della notte e sotto la sferza di un vento gelido provocato dallo spostamento d'aria della montagna caduta. In quel posto di blocco dove le autorità impacciate e impaurite non sapevano cosa fare e i soldati assiepati nei camion aspettavano una direttiva - che nessuno sapeva dare - per agire. Dove i dirigenti della SADE, il monopolio omicida, mi urlavano di smetterla di esagerare le cose.
La stessa rabbia che mi sconvolse il giorno dopo sulla spianata ghiaiosa di quella che era stata Longarone, di fronte ai pochi superstiti che vagavano - chi inebetito, chi piangente, chi urlante contro i responsabili di tanto scempio - alla ricerca dei parenti scomparsi, e crollavano di schianto di fronte a un quaderno, a un lembo di vestito, alla manina di un bambino troncata di netto e affiorante dalla melma, credendo ognuno di riconoscere quella del figlio o del nipotino, rivendicandola come propria, alla stessa maniera delle salme sfigurate, irriconoscibili, che man mano venivano recuperate lungo le sponde del Piave, fin giù nel Trevigiano e riportate in un campo a Longarone colmo di bare, per essere riconosciute e sepolte.
Perché questa rabbia? Si disse, allora, che la tragedia era stata troppo grande: duemila morti ammazzati per la voracità del monopolio elettrico, per l'asservimento ad esso della scienza e della tecnica, per la subordinazione alla grande Società elettrica del potere politico. Si disse che il Vajont era il punto limite di un comportamento pubblico. Che dal Vajont bisognava trarre gli insegnamenti necessari per rimettere in discussione ruoli e metodi. Ma i buoni propositi sono via via svaniti.
Gli intellettuali si accontentano di firmare appelli per questo o per quello, tutt'al più disquisiscono tra loro, lontani dalla comprensione della gente. Anche tra i politici (tralasciando, ovviamente, i degenerati della P2, del terrorismo e della mafia) vi è chi concepisce la propria funzione come mestiere e assume atteggiamenti e linguaggio funzionali soprattutto alla carriera. Scienziati e tecnici, in qualche caso corresponsabili del Vajont, vengono impegnati per «chiara fama» da amministrazioni di sinistra e politicamente esaltati perfino da chi un tempo li aveva giustamente messi alla gogna.
Rabbia, quindi, delusione, scoramento. Per metodi e comportamenti che non solo non sono cambiati, ma sono peggiorati. Mi si dice spesso, con ironico paternalismo, che non è più il tempo degli idealismi: la società è cambiata, i problemi anche, ecc. ecc. E' la solita solfa di chi crede di essere «all'altezza» di una società moderna e ti fa capire che tu non lo sei, perché non condividi un modo di fare politica sopra la testa della gente. Oppure vuol nascondere alla gente la realtà o, meglio, non vuole nessun controllo sul proprio operato. Come se i cambiamenti sociali, in meglio o in peggio, cancellino aspirazioni e ideali e non ne creino, invece, anche di nuovi. Come se non fosse la spinta degli ideali che animano il popolo a fare progredire il mondo.
Ricordare il Vajont per me, oggi, significa testimoniare di un grande momento di impegno dei comunisti in difesa della gente. Anche se eravamo soli e la Dc ci chiamava «sciacalli». Ed è pure la testimonianza di una sconfitta più generale, poiché il Vajont che doveva insegnare tante cose sul piano della democrazia e della politica, in realtà è stato poi considerato solo un incidente. Tuttavia la rabbia che provo, come quella di venti anni fa, la ritengo un buon segno. Anche perché siamo in tanti a provarla.


Tina Merlin, «l'Unità», 9 ottobre 1983





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