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Giuliana e il suo Irak
Postato il Venerdì, 18 febbraio @ 01:13:05 CET
Argomento:
Un articolo di Giuliana Sgrena..

3.4.2003
I sopravvissuti di Babele
(di Giuliana Sgrena - il manifesto)
Poco più di sessanta chilometri separano Baghdad dall'antica Hilla, più nota come la mitica Babilonia, capitale del famoso regno di Hammurabi e successivamente dell'impero di Nabucodonosor. Anche se ormai siamo abituati ai bombardamenti che colpiscono Baghdad notte e giorno, man mano che ci allontaniamo dalla capitale si avverte che la guerra è sempre più vicina, quella combattuta non solo dal cielo ma anche sul terreno. Prima si avverte una presenza militare irachena nascosta dietro le trincee che non sono più riempite di petrolio dato alle fiamme, come intorno a Baghdad, ma di uomini e armi; poi si trovano campi militari veri e propri con i soldati. Mentre passiamo, la contraerea sta sparando. La strada tuttavia è trafficata e il mercato di Mahmudia è affollato anche di molte donne, quelle che non si vedono quasi più nelle strade della capitale. Avvicinandoci a Hilla si incontrano villaggi dall'aria un po' più "primitiva" o forse è solo una suggestione provocata dall'approssimarsi a un luogo leggendario, che avevamo visitato alla vigilia di un'altra grande minaccia per i siti archeologici, la guerra del Golfo del 1991. Dei monumenti che avevano segnato gli antichi splendori della città restava poco più delle fondamenta già allora, il materiale da costruzione usato a quei tempi non aveva favorito la conservazione e poco convincente è risultata la ricostruzione voluta da Saddam Hussein. Comunque ora non c'è tempo per verificare gli effetti di quella guerra e nemmeno per cercare di riscoprire il fascino del passato di Babilonia. La nostra meta è un'altra: l'ospedale di Hilla, dove sono ricoverati i feriti sopravvissuti al massacro provocato dal massiccio bombardamento anglo-americano di lunedì scorso. Fin dall'entrata, già l'atrio dell'ospedale è pieno di feriti, medici, flebo, garze insanguinate. Questo è solo il pronto soccorso, gli ultimi arrivi, ferite di vario tipo, lo spettacolo più raccapricciante lo riservano le corsie dei piani superiori. Al terzo piano stanze piene di feriti: alcuni hanno già avuto arti amputati, altri li avranno inevitabilmente. Ferite su tutto il corpo, più o meno gravi, sangue, puzza. «Non abbiamo nemmeno i mezzi per la sterilizzazione, si rischiano infezioni, mancano i medicinali», confessa il dottor Ali al-Katib, capo del dipartimento chirurgico. Altri ricoverati, quelli più gravi potrebbero andare ad aggravare il bilancio dei "martiri": «Finora sono 67, oltre 250 i feriti, il cento per cento civili», afferma il medico. E conferma che la maggior parte dei feriti sono stati colpiti da cluster bombs. «Non si tratta di bombe che si usano contro i carri armati ma contro la popolazione, sono bombe anti-persona: si vuole terrorizzare la gente», commenta un altro medico, il dottor Dhigà Ali. Hamid Khalil Hamza, 21 anni, giace su un letto avvolto in una coperta, è assistito dal padre Khalil ma poi arrivano anche degli amici, ha la gamba maciullata fasciata alla bella e meglio in una garza piena di sangue. La loro casa, come altre del villaggio di al Ghaliz, a 5 chilometri da Babilonia, è stata bombardata lunedì verso mezzogiorno. In un altro letto, un vecchio con un braccio fasciato tossisce insistentemente. Ci sono anche alcuni sopravvissuti dell'attacco al pulmino di el Kifl, giovedì scorso. Sedici i morti, tra cui donne e bambini, che andavano a seppellire una loro congiunta a Najaf. Ali è sopravvissuto ma ha un braccio tagliato e l'altro conciato male, anche una gamba è in cattive condizioni. Al quarto piano donne e bambini. In una corsia, accovacciata per terra una madre nascosta sotto un velo nero, intorno a lei le cinque figlie, abbandonato fra le sue braccia, il bimbo più piccolo, due delle ragazze, le più gravi, sono distese sul letto, per le altre non c'è più posto. Tutte, madre compresa, mostrano le tipiche ferite da cluster bomb, sul collo, le braccia, le gambe. Una ha un buco più profondo sulla gamba distesa su una garza tutta imbevuta di sangue. Vengono da Nadir, un quartiere popolare di Hilla, da dove arriva anche Nidhal Adi, 48 anni, insegnante nella scuola secondaria Gaza, che si trova poco lontano da casa sua, sta assistendo la figlia, Razad Hakim, di 20 anni. E racconta: «Lunedì mattina erano da poco passate le dieci quando abbiamo sentito una forte esplosione, schegge dappertutto, alcune hanno colpito me, altre, più gravemente, mia figlia al petto. L'abbiamo subito portata qui». Nidhal ha un altro figlio di sei anni, l'ha lasciato con la nonna, il marito è morto e mostra il velo nero che porta in segno di lutto. E' una donna molto vivace e protesta: «Perché vogliono distruggere la mia famiglia? Io non ho niente a che vedere con il governo, perché ci bombardano?». Già, perché colpiscono bambini come Burgham Alì, 3 anni, che giace sul lettino con il ventre aperto, il capo bendato e un occhio perduto? Non piange nemmeno. I genitori raccontano, la solita storia che si ripete, questa volta a Hindiya, a metà strada tra Hilla e Kerbala, dove ci sono state numerose vittime. Marianne, 10 anni, e Huda, 5, due sorelline, stavano giocando davanti a casa nel piccolo villaggio di Twerige, sulla strada verso Kerbala, quando sono arrivate le bombe, racconta Fathma Obeida, la madre di 36 anni. «Ho sentito una forte esplosione e quando sono uscita ho trovato le bambine grondanti di sangue», sono state ferite al capo, entrambe. Anche il marito è stato colpito, lui è grave, si trova in terapia intensiva, in un'altra corsia. Vi aspettavate un attacco di questo tipo? «Da giorni, 24 ore su 24, sentivamo gli aerei americani volare sopra di noi, sempre più bassi, ma non pensavamo di essere colpiti, nel nostro villaggio non ci sono obiettivi militari, non ci sono soldati», sostiene Fathma, sconsolata per la sorte delle due splendide bambine che si tengono strette mentre sono bersagliate dai fotografi. Una dopo l'altra, tutte le corsie sono zeppe di feriti, più o meno gravi, donne, bambini, giovani, anziani. Una donna settantenne, ferita ad un braccio, non ha nemmeno voglia di parlare. Tante vittime. Ma voi vi trovate sulla linea del fronte, a pochi chilometri da Kerbala e le truppe anglo-americane dicono di aver deciso di procedere l'avanzata verso Baghdad lasciando fuori la città santa? chiediamo a un medico. «Non siamo sulla linea del fronte non abbiamo visto militari, abbiamo sentito solo gli aerei e le bombe», risponde il dottor Ali al-Khatib. Gli aerei anglo-americani che volano sempre più bassi rischiano di provare gravi danni anche ai luoghi santi che ospitano i santuari del quarto califfo Ali, capostipite degli sciiti, che si trova a Najaf, e dei suoi due figli, gli imam Abbas e Hussein, a Kerbala. Non è certo il modo migliore per cercare di essere ben accetti dagli sciiti iracheni e un danneggiamento dei luoghi santi, meta di pellegrinaggio anche degli iraniani - in stragrande maggioranza sciiti - potrebbe persino provocare problemi all'opposizione del Consiglio per la rivoluzione islamica in Iraq con base a Tehran che appoggia l'intervento anglo-americano. Peraltro, gli sciiti iracheni, quelli che vivono qui, non si fidano delle promesse americane. «Abbiamo imparato dal 1991», ci ha detto qualche tempo fa un imam della moschea Abbas, allora gli americani avevano favorito la rivolta degli sciiti ma poi li hanno abbandonati di fronte alla sanguinosa repressione di Saddam. Che il terreno sciita non sia favorevole agli invasori lo dimostra anche il fatto che le truppe avrebbero deciso di avanzare verso Baghdad senza occupare le città del sud. L'assedio si sta stringendo intorno alla capitale, non sappiamo se veramente le truppe siano alle porte come dice il Pentagono - il regime iracheno smentisce -, ma sicuramente i bombardamenti sono pesantissimi. Abbiamo visto i missili cadere sulla strada di ritorno da Hilla e poi, rientrati a Baghdad, nel pomeriggio il rumore dei cacciabombardieri si è fatto sempre più intenso. Numerosi gli obiettivi colpiti vicino a luoghi civili, ospedali, un centro di riabilitazione. Soprattutto è stata danneggiata la sede centrale della Mezzaluna rossa a al Mansour, che coordina anche l'attività delle varie Ong presenti in Iraq. Ieri mattina, verso le dieci, i missili hanno colpito un grande magazzino adiacente alla sede della croce rossa irachena, distruggendo oltre al deposito - dove pare ci fossero anche medicine - sette macchine che passano per la strada e l'onda d'urto ha mandato in frantumi i vetri, distrutto le suppellettili, i computer, gli schedari che si trovavano dentro la sede dell'organizzazione umanitaria. A denunciare l'accaduto è il dottor Hisham al-Saadun, direttore della Mezzaluna rossa. Dentro l'edificio si trovava anche Mohammed, il coordinatore del Ponte per Baghdad che lavora appunto in collaborazione con l'istituzione irachena. Mohammed è stato travolto mentre scendeva per le scale, riportando, per fortuna, solo escoriazioni, secondo quanto ci ha riferito Simona Torretta, rappresentante dell'associazione italiana. Che denuncia soprattutto il fatto che il magazzino, se questo era l'obiettivo, sia stato colpito di giorno quando dentro la sede della Mezzaluna ci sono almeno una trentina di lavoratori.

 
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