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Stefano ''Cisco'' Bellotti: Io, vagabondo.
Postato il Giovedì, 16 dicembre @ 14:44:52 CET
Argomento: La Rassegna Stampa sui Ramblers
La Rassegna Stampa sui RamblersAlcuni ramblers ci hanno segnalato che il pezzo pubblicato dal Mucchio Selvaggio che avevamo inserito era incompleto. Rieccovelo ora per intero.

Stefano "Cisco" Bellotti - Io, vagabondo
di Federico Guglielmi
da Il Mucchio Selvaggio extra, n. 15 Autunno 2004

L'aspetto che forse emerge con maggior chiarezza dalla storia personale e musicale di Cisco, nonostante i saldissimi legami con la sua terra, è la tendenza al movimento: che si tratti di viaggi realmente compiuti in terre vicine o lontane, di percorsi artistici o di voli con il cuore e la mente protesi verso (magnifiche) utopie, non ci sono dubbi sul fatto che il trentaseienne emiliano non ami granché la staticità, onorando in questo l'appellativo di rambler guadagnato quando, nel 1992, divenne front-man della band della quale è tutt'oggi uno dei cardini, il principale portavoce e soprattutto l'inconfondibile icona.
Cantante istintivo che con il tempo e l'esercizio ha guadagnato anche in tecnica, e infaticabile trascinatore sul palco a dispetto di un fisico non propriamente asciutto, Stefano è anche una persona piacevolissima, con la quale - magari davanti a un pinta di buona birra irlandese - è facile perdersi in conversazioni incentrate sulla politica, sullo sport, sul rock e sul folk, sul cinema e la letteratura, sulle esperienze di ogni genere raccolte nel proprio vagabondare. E questo è esattamente ciò che è accaduto, nonostante l'assenza di alcol (troppo caldo!) e l'unico tema affrontato - seppur aperto a numerose digressioni: la sua vita, dagli albori ai giorni nostri - nelle quattro ore di intervista usate come base di queste undici pagine di dossier, che raccontano a un buon livello di approfondimento il background umano/culturale del Nostro e le tante, concitate vicende degli oltre dieci anni di carriera ufficiale dei suoi Modena City Ramblers.

La mia gente
1968-1991
"Sono nato a Carpi, vicino Modena, il 29 luglio del 1968, in una famiglia operaia. Ai tempi mio padre Corrado lavorava nei cantieri che costruivano strade e autostrade, e quindi era costretto a spostarsi spesso: in quel periodo, infatti, i miei genitori e mio fratello Marco - di undici anni più grande di me - abitavano presso Vicenza, ma vollero farmi nascere a Carpi perché siamo carpigiani da generazioni. Essendo molto cagionevole di salute, il medico consigliò di portarmi altrove: quando avevo sei mesi ci trasferimmo così a Berceto, seguendo papà che era impegnato sulle montagne di Parma, e tutti i miei malanni si risolsero. Restammo lì fino al 1971, quando rientrammo definitivamente a Carpi: mio padre era diventato camionista e mia madre Ernesta fu assunta in una maglieria, un settore industriale da noi floridissimo". La crescita di Stefano si svolge dunque nella cittadina emiliana, senza lussi ma anche senza difficoltà economiche, in un quartiere periferico che ha come centro quattro palazzoni rossi; sono però abituali le visite ai parenti in campagna, com'è naturale che sia per una famiglia fortemente legata alla propria terra e alle proprie radici contadine: ambienti contigui che ovviamente esercitano notevole influenza sul ragazzino, specie sul piano della coscienza e dell'orientamento politici. "Nell'edificio più grande c'era la sezione del Partito Comunista, fulcro della vita pubblica locale, e dunque ho vissuto in modo naturale la politica e la presenza forte del Pci e de L'Unità: da bambino, la domenica, vendevo il giornale porta a porta, e quando ho cominciato ad andare in colonia e mi sono confrontato con realtà sociali differenti mi pareva assurdo che esistessero posti dove la Festa de L'Unità, un punto fermo della mia infanzia, non veniva organizzata. Ho molti ricordi, in questo senso, molte immagini… dal volto di Berlinguer - una volta andai coi miei ad un suo comizio a Firenze, ma c'era così tanta gente che non riuscimmo neppure ad avvicinarci alla piazza dov'era stato montato il palco - a quello di Gramsci fino a Lenin, anche se non conoscevo nessuno che esaltasse il "modello sovietico": il nostro Comunismo è sempre stato quello emiliano, quello di una regione in cui si sta bene sia a livello di servizi pubblici e solidarietà e sia nel privato. Berlinguer, Gramsci, Lenin erano parte della nostra storia quotidiana, proprio come la foto di famiglia attaccata al muro di casa. C'erano poi i racconti dei parenti anziani, i nonni e gli zii: le storie della Resistenza e dei partigiani, dalle quali ho imparato moltissimo… per me "la canzone" per eccellenza era Bella ciao, che veniva persino suonata dalla banda ai funerali. La politica, insomma, è sempre stata un elemento essenziale della mia vita; fui colpito moltissimo anche dal rapimento Moro, la maestra ci mandò addirittura a casa e per settimane i miei genitori si affannarono a spiegarmi la situazione e a chiarirmi che le Brigate Rosse non avevano nulla a che spartire con il nostro Comunismo. In seguito ho logicamente perfezionato la mia visione, non limitandomi ad approfondire i temi o a frequentare le manifestazioni, ma cercando di prendere posizione in ogni attività, compresa la musica da ascoltare o i posti dove andare".
Al di là dell'impegno ancora in nuce, la gioventù di Stefano è segnata da altri interessi: non la scuola, che peraltro non costituisce un dramma ("pur non amandola troppo me la sono sempre cavata benino, senza intoppi, tanto che l'unica bocciatura della mia vita è stata all'esame per la patente di guida; mi piacevano storia e geografia e, più tardi, anche letteratura italiana: la mia insegnate delle Superiori era molto brava ed è stata lei a farmi apprezzare le buone letture che fino ad allora avevo trascurato. Ci andavo comunque volentieri per via delle ragazze") ma, in primis, il calcio. "Fino a sedici anni ho avuto in testa quasi solo il pallone. Sono tifoso del Bologna, che andavo a vedere allo stadio con mio padre, e ho cominciato prestissimo a giocare, in porta e in altri ruoli: da grande volevo diventare calciatore. Ho fatto agonismo in una società di Carpi per dieci anni, e nonostante nessuna squadra si sia mai interessata a me o ai miei compagni prendevamo la faccenda molti sul serio; le mie settimane erano scandite dagli orari degli allenamenti e delle partite". È in tale contesto che viene coniato il soprannome Cisco, dal curioso - e appropriato, con il senno di poi - sapore latino: quando giocava in strada con gli altri ragazzi, il futuro rambler indossava una maglietta con la scritta San Francisco, via via scomparsa per usura fino a lasciare le ultime cinque lettere. "Alle medie ho però sviluppato una seconda passione, la musica, alla quale - al di là del fatto che mia madre, da brava ex mondina, a casa cantava sempre - ho iniziato a interessarmi grazie alle cassette di mio fratello - che ascoltava solo artisti italiani, soprattutto cantautori: Guccini, Dalla, De Gregori, De Andrè, Jannacci… - e tramite il padre di un mio amico che mi ha introdotto ai Beatles, la prima band rock ad avermi colpito seriamente. All'epoca avevo circa undici anni, ma già da un po' suonavo ad orecchio - non ho mai imparato a leggere il pentagramma - una pianola Bontempi regalatami da mia madre… a lei non sarebbe dispiaciuto se mi fossi iscritto al Conservatorio e il mio professore di musica diceva che ero abbastanza portato, ma in terza media sono entrato in conflitto con lui e, per fargli dispetto ho scelto un'altra strada."
Nel 1982 Cisco entra così alle Superiori, in un istituto professionale che prevede, dopo tre anni, un diploma di Elettricista Elettromeccanico. "Quella professione non mi attirava proprio, e quindi ho preferito trovarmi subito un altro lavoro: per qualche mese sono stato apprendista fabbro, montavo portoni e cancelli… mi distruggeva, e per di più ero pagato malissimo. Poi venni assunto in una maglieria, alle macchine, dove guadagnavo il doppio e facevo metà della fatica. A differenza dei miei coetanei, quindi, avevo in tasca un po' di soldi che spendevo tutti in dischi… alcuni storici e altri, devo ammetterlo, di pessimo gusto. A sedici anni mi sono innamorato prima dei Deep Purple e poi dei Led Zeppelin, e c'era un mio compagno che mi prestava dischi e cassette: ero 'preso' dal rock classico, meglio se un po' duro… cose tipo One More For The Road dei Lynyrd Skynyrd. Mi fu anche chiesto di cantare in un gruppo metal, ma l'idea non mi interessava nonostante mi fossi scoperto bravino: merito del mio professore di inglese delle Medie, che insegnava cantando Beatles, Dylan e tradizionali americani con chitarra e armonica. Verso metà degli '80 ho scoperto Muster Of Puppets dei Metallica, un album eccezionale che apprezzo tuttora, e quindi Clash, Sex Pistols, U2 , i primi Cult e le grandi opere rock stile Tommy, Quadrophenia, The Wall, mentre ho sempre trovato il progressive troppo masturbatorio. Con gli amici - ragazze ne giravano poche, non eravamo tipi trendy - andavamo a ballare al Mascotte o al Corallo, dove c'era musica alternativa, dal metal alla new wave." L'anno-chiave per il Cisco-musicista è però il 1987, quando assieme ad un ragazzo che abita nell'appartamento sotto il suo allestisce una band senza pretese ("lui era un chitarrista in erba, ma si capiva che era piuttosto dotato; visti i risultati pessimi abbiamo lasciato perdere, ma mettere piede in una sala prove è stata una bella esperienza") e soprattutto quando per caso si imbatte nei Pogues. "Mi è capitato sotto gli occhi il video-clip di If I Should Fall From Grace With God ed è stata una folgorazione, tanto che sono corso subito ad acquistare l'album Dopo mi sono messo a cercare altra musica più o meno di quel genere: i Waterboys, i Men They Couldn't Hang… chiunque mischiasse rock, punk e folk irlandese, mentre agli artisti tradizionali sono passato in un secondo tempo… ai Pogues devo anche l'esplosione della mia curiosità per l'Irlanda." E sempre del 1987 è un altro episodio importate della formazione del Nostro, una vacanza nel sud della Francia con la carovana del Circo Medrano. "Marco, un mio carissimo amico, aveva i genitori che lavoravano al circo, e lui ogni estate li raggiungeva dovunque fossero; quella volta mi ha portato con lui ed è stata una storia splendida: mi ha fatto conoscere un mondo diverso dal mio, più nomade ma con un pronunciatissimo senso di "grande famiglia". Il resto del 1987 e oltre metà del 1988 vanno invece via con il Servizio Militare. "Pur senza raccomandazioni sono stato assegnato non lontano da casa, nel reparto di Artiglieria Contraerea presso l'Aeroporto di Villafranca di Verona. Non so bene perché, pur avendoci pensato, ho deciso di non fare l'obiettore... ho buttato un anno di vita, visto che avevo anche un incarico stupido, bighellonando tra Verona e Carpi".
Qui, smessa la divisa, nasce il Cisco viaggiatore. Pur conservando il suo posto in maglieria, indispensabile per finanziare le proprie aspirazioni, il ventenne carpigiano intraprende infatti una serie di "pellegrinaggi" cultural-musicali attraverso l'Europa. "A capodanno del 1989 sono stato per cinque/sei giorni a Londra con gli amici, riuscendo a spendere solo in dischi un milione di vecchie lire. In estate, con l'InterRail, siamo finiti in Svezia, Norvegia, Danimarca, e poi a Parigi… da lì volevamo prendere il treno per l'Irlanda, ma eravamo molto stanchi e abbiamo preferito il mare, a Barcellona. Nel 1990 abbiamo organizzato un altro giro con due macchine in Inghilterra, Scozia e Irlanda, ma avendo finito anzitempo i soldi siamo stati costretti a saltare l'ultima tappa. Sono riuscito finalmente ad arrivare in Irlanda nell'estate del 1991, sempre con il mio amico Marco, e quello è stato il viaggio che mi ha cambiato la vita: tornato a casa sono stato sei mesi con la valigia pronta sul letto vuoto di mio fratello - che, essendosi intanto sposato, stava ormai per conto suo - per fuggire alla prima occasione. Non ne potevo più della maglieria e volevo cambiare, ero mentalmente in bilico. A capodanno sono così tornato in Irlanda, da solo, per provare a gettare le basi per vivere lì, fregandomene del mio inglese maccheronico." La trasferta, almeno in ottica di emigrazione, non è però soddisfacente, e a Cisco non resta che rientrare a Carpi. Mai avrebbe immaginato che, di lì a pochi giorni, avrebbe trovato la sua Irlanda a due passi da casa… o, meglio, che la sua Irlanda avrebbe trovato lui.

Celtica Patchanka
1992-1998
"Doveva essere il febbraio del 1992 quando il mio solito amico, Marco, venne di corsa a chiamarmi al bar perché al Kalinka, un locale di Carpi, suonava un gruppo dedito alla musica irlandese. Mi precipitai lì con la bicicletta e c'erano questi sette/otto personaggi; avevo già visto due o tre di loro - Albertino, Giovanni e forse Albertone - nel luglio del 1991 alla data dei Pogues di Sant'Ilario, quando fuori dal posto del concerto facevano i busker proponendo i pezzi di Shane McGowan e compagni con una fisarmonica, una chitarra e addosso una splendida maglia con la bandiera d'Irlanda, ma della loro esistenza come Modena City Ramblers non sapevo proprio nulla. Dopo la terza o quarta birra ho cominciato a saltare sotto il palchetto, cantando tutti i tradizionali che avevo imparato a furia di ascoltare Chieftains, Dubliners e Christy Moore; così, a un certo punto, mi hanno invitato a salire per The Wild Rover, e io sono stato entusiasta di farlo... una cosa alla The Commitments di Alan Parker, uno dei miei film preferiti - il cinema è sempre stato una mia passione - assieme a Local Hero. Alla fine ci siamo fermati a chiacchierare, e loro mi hanno chiesto di prepararmi qualche altro brano per futuri "live". Ho provato If I Should Fall In Grace With God, che poi ho eseguito, con The Wild Rover, in altre circostanze." Nulla di strano, poiché in quel periodo di "apprendistato" i Modena City Ramblers non sono un ensemble convenzionale ma una compagnia aperta, con alcuni membri (più o meno) fissi e altri occasionali: una specie di collettivo votato alla propaganda del folk dell'Isola Verde che esiste dall'inizio del '91 e che ha come fulcri il fisarmonicista Alberto Cottica, il chitarrista Giovanni Rubbiani, il cantante Alberto Morselli (tutti già insieme nei Lontano da dove), il più anziano polistrumentista Luciano Gaetani (nei '70, a Roma, aveva guidato i Roisin Dubh, che con il loro folk-rock celtico in chiave barricadiera avevano raccolto curiosità e consensi), il flautista Franco D'Aniello e il bassista Massimo Ghiacci (ex Plutonium 99).
"Il 1 maggio Luciano, che ai miei occhi appariva come il capo, mi invitò a casa sua per parlare. Mi chiese se fossi interessato a entrare in pianta stabile nella band e io ne fui piuttosto stupito: per la mia dichiarata imperizia e soprattutto perché loro avevano già un cantante. Appresi così che Albertone preferiva le ballate e non amava gli episodi duri e veloci, dei quali mi sarei invece potuto occupare io. Accettai, e divenni un rambler effettivo".
In quel 1992 sempre più concitato sotto il profilo live, che ha come momento-clou la "spalla" ai Pogues a Modena, i ragazzi decidono di allargare i propri orizzonti, accostando ai classici irlandesi composizioni legate alla loro Emilia e - sulla scia della bufera appena esplosa di Tangentopoli - alla canzone politica ("Il primo pezzo che provammo fu Bella ciao, e per me si chiudeva un cerchio"). In parallelo, la volontà di mettere ordine in una line-up troppo caotica ("In cantina così come ai concerti vigeva la regola del 'chi vuole venire bene e chi non vuole fa lo stesso', determinando problemi pratici non indifferenti") porta a indire una riunione plenaria del giro Ramblers, alla quale è richiesta la presenza solo di chi è intenzionato a fare sul serio; all'appello rispondono in nove, cioè i sei "cardini" più Cisco, il violinista Marco Michelini e la bodhrànista/corista Vania Buzzini: sono loro che nell'aprile 1993 approntano il demo Combat Folk ("titolo per noi emblematico: i Clash e le radici"), con quattro tradizionali irlandesi strumentali, tre cover punkizzate (Contessa di Paolo Pietrangeli sulla melodia di Old Man Drag dei Pogues, Bella ciao e Fischia il vento) e due brani autografi, l'ipnotico Ahmed l'ambulante (il testo è una poesia di Stefano Benni) e l'incazzatissimo Quarant'anni ispirato alle vicende di Tangentopoli, impietoso ma realistico ritratto della Prima Repubblica dotato del carisma dell'inno. "Ai tempi, essendo più giovane e meno colto di tutti gli altri, seguivo tutto quello che dicevano loro a livello sia musicale che di testi, divenendo comunque via via più propositivo. Il nastro fu registrato in diretta e velocemente, tanto che gli strumentali - in origine non previsti - furono incisi solo perché erano rimaste alcune ore libere: eravamo naïf, ma sapevamo bene quello che volevamo. Lì abbiamo conosciuto Kaba Cavazzuti, che per caso aveva sostituito il suo socio dello studio Esagono di Rubiera dove eravamo arrivati su consiglio degli amici Gang, e con lui si instaurò subito un gran feeling." Bella ciao e Quarant'anni sono affidate all'ancora acerbo ma già autorevole Cisco, la cui voce è in stimolante dualismo con quella profonda ed enfatica di Morselli contribuendo a rendere i Ramblers uno dei gruppi emergenti più chiacchierati: allo scopo servono esibizioni sempre vigorose ed alcoliche spesso organizzate fuori dalla regione natia, gli incoraggiamenti della critica, il passaparola e il rapidissimo esaurirsi delle millecinquecento copie della cassetta. Grazie ai compagni che gli hanno fissato un piccolo "stipendio", integrato per alcuni mesi con un misero sussidio di disoccupazione ("mi faceva sentire molto irlandese"), Cisco si è intanto licenziato dalla maglieria.
"Mi sono impegnato a cercare di colmare la distanza culturale che avvertivo tra me e loro. Ho letto un mucchio di libri, ho studiato musica comprando anche una chitarra e ho coronato un mio piccolo sogno andando a lavorare da Tosi Dischi, un negozio di Carpi che tanto aveva contribuito a formare i miei gusti".
Nel mentre, la bella esperienza di Combat Folk porta Cavazzuti a proporre ai Nostri la produzione gratuita di un master, da cedere su licenza per stampa e distribuzione a una di quelle etichette indipendenti che in quegli anni, resi piuttosto vivaci dal proliferare delle posse e dai riscontri ottenuti da Gang, Mau Mau o Africa Unite, operavano in Italia; la spunta la Helter Skelter di Roma, che attraverso il sottomarchio X pubblica nel marzo del 1994 Riportando tutto a casa, caratterizzato dalla citazione dylaniana del titolo (traduzione fedele di Bringing It All Back Home) e da una geniale copertina dove sono ammassati oggetti che sintetizzano la storia personale degli otto musicisti (se n'è andata Vania Buzzini, che è però accreditata come ospite). "Per il nostro vero esordio c'è stata molta collaborazione nel songwriting. La prima cosa che ho scritto, insieme ad Albertino, è stata I funerali di Berlinguer, nella quale sono anche citati i soprannomi di alcuni miei parenti, e sono mie anche certe frasi dell'adattamento in dialetto di The Great Song of Indifference di Bob Geldof, che non ci convinceva perché troppo 'svaccata' e fu inserita solo per le pressioni di Kaba. Il dialetto è stato importante dall'inizio, specie per me che lo parlo più degli altri. Abbiamo preso a utilizzarlo sull'onda dei Mau Mau, che cantavano in piemontese: noi ci siamo comportati nello stesso modo perché non volevamo abbandonare la nostra 'lingua madre'. Comunque non abbiamo pretese filologiche, anche se cerchiamo di evitare le castronerie: ci piace mantenerlo vivo, magari anche traducendo termini italiani che prima non esistevano. Dal punto di vista dello stile stavamo già cambiando: se prima eravamo monoliticamente Pogues, in noi iniziavano ad infiltrarsi Les Negresses Vertes e Mano Negra. Il disco è pienamente rappresentativo di ciò che eravamo allora, e ne eravamo soddisfatti al 100%". Oltre a recuperare in nuove versioni Quarant'anni, Bella ciao, Contessa e Ahmed l'ambulante, l'album contiene almeno altri due episodi fondamentali dei Ramblers: la splendida canzone d'amore per l'Irlanda In un giorno di pioggia ("era stata scartata: fui io a spingere perché entrasse in scaletta") e l'autoironica e malinconica Delinqueint ed Mòdna, entrambe cantate da Morselli così come le intense ballate Canto di Natale e Ninnananna; a Cisco toccano Quarant'anni, Bella ciao, il resto delle tracce in modenese (la parte "punk" de I funerali di Berlinguer, The Great Song of Indifference e Tant par tachèr) e l'incalzante Morte di un poeta, composta da Giovanni Rubbiani per il da poco scomparso Helno dei Les Negresses Veters. Il successo, seppur ristretto all'area alternativa, è immediato: recensioni più che lusinghiere, duemila esemplari venduti senza alcuna promozione, un accordo di booking con la neonata Mescal di Valerio Soave ("Credo sia stato Ligabue, all'epoca suo socio, a parlargli di noi; quando venne a conoscerci e scese dalla sua BMW pensammo al solito manager-pappone ed eravamo tentati di lasciar perdere, ma lui si dimostrò una persona squisita. Infatti siamo ancora con la sua agenzia, alla quale fummo i terzi a legarci dopo La Crus e Massimo Volume") e un contratto con la PolyGram, che - evento più unico che raro - accetta persino di ristampare Riportando tutto a casa.
"Non volevamo che, con il cambio di etichetta, il disco morisse. Valerio fece capire quanto la faccenda fosse per noi importante, e così la PolyGram non fece obiezioni. Anzi, il presidente Stefano Senardi ebbe l'idea di arricchirlo con un inedito da incidere insieme a Bob Geldof, e in quattro e quattr'otto fu fissata una session all'Esagono". La seconda edizione di Riportando tutto a casa, con Delinqueint ed Mòdna come singolo apripista ("una scelta che non ho mai condiviso: troppo naïf e soprattutto troppo Mau Mau") vede la luce a novembre, poco dopo l'apparizione alla "Biennale dei Giovani Artisti del Mediterraneo" in quel di Lisbona e l'uscita de I disertori, cd-tributo a Ivano Fossati per il quale il gruppo ha riarrangiato Gli amanti d'Irlanda ("l'abbiamo fatto essenzialmente per stima nei confronti dei responsabili del progetto, ma non siamo mai stati granché contenti del risultato"): il pezzo aggiunto è Il bicchiere dell'addio, esilarante e frenetica drinking song in italiano e inglese scritta da Giovanni e cantata in tre ("Geldof si calò alla grande nel ruolo, ci divertimmo un casino e gli esiti furono ottimi. Valerio ci raccontò che mentre accompagnava Bob all'aeroporto lui gli disse 'cazzo, mi avete fatto venire fino in Italia per suonare con un gruppo che sembra i Pogues'. Per noi, il più gradito dei complimenti"), che certifica dell'ingresso in line-up del batterista Roberto Zeno. Per correttezza e per scongiurare accuse di speculazione, i Ramblers regalano uno speciale singolo con Il bicchiere dell'addio a chiunque si presenti da loro con il cd della Helter Skelter.
Per la primavera del 1995 l'album è in ben 25.000 case, e in una piccola parte di esse finisce anche il Tributo ad Augusto della Cgd contenente L'atomica cinese ("Nessuno di noi è mai stato fan dei Nomadi, ma con Daolio sentivamo parecchie affinità: avevo chiesto io a Valerio di dare la nostra adesione se qualcuno avesse organizzato un ricordo di Augusto. Abbiamo scelto L'atomica cinese per il suo valore concettuale e perché si prestava bene ad un nostro adattamento"). Il resto dell'anno scorre fra incontri ("Nelle note di Combat Folk avevamo collocato una frase estratta da un monologo di Paolo Rossi, e tramite conoscenti gli demmo il nastro. Quando lui fece lo spettacolo del Circo ci invitò due o tre sere"), la partecipazione con Bella ciao al cd Materiale resistente voluto da Ferretti e Zamboni dei C.S.I. (e all'happening di presentazione del 25 aprile a Correggio), attestai di stima, concerti e - dato che ogni medaglia ha due facce - problemi, che si trascinano fino al termine dell'estate sfociando nelle definitive dimissioni di Albertone. "È un lupo solitario e faticava a mettersi in discussione all'interno della band: dal mio ingresso al 1995 se n'era andato almeno sei volte, e ogni volta - dopo discussioni e dibattiti tra noi - lo avevamo convinto a rimanere. Credo che la sua voce fosse molto bella e particolare, e che assieme alla mia e alla nostra musica costituisse qualcosa di unico, ma caratterialmente non era un tipo facile e quindi aveva scazzi un po' con tutti. Non so come la vedesse lui, ma per quanto mi riguarda il nostro rapporto è stato solo in minima parte conflittuale: lo considero uno che mi ha aiutato ad imparare il mestiere che faccio ora, ma ritengo anche di essergli stato di sostegno vista la sua timidezza sul palco. Sul piano artistico le cose erano compatibili, e mi dispiace che la relazione con lui sia l'unica che abbiamo perso: con tutti gli altri fuoriusciti dalla formazione, infatti, ci ritroviamo, saltuariamente o continuativamente. Albertone ha vissuto alla sua maniera i Ramblers, ha interiorizzato e analizzato la faccenda in base alle sue convinzioni e questo ha purtroppo chiuso le porte".
La forzata rinuncia ad Albertone crea qualche squilibrio nell'ensemble, fino ad allora perfettamente assestato, specie nell'ottica del secondo album verso il quale i Nostri sono già proiettati: c'è da decidere come andare avanti, e c'è da farlo in fretta. "Nei panni di unico front-man ho avuto per un attimo un po' di paura, ma le prospettive generali comunque incoraggianti mi hanno tranquillizzato: la mia filosofia era di prendere le cose come venivano, senza paranoie. Giovanni e Albertino avrebbero voluto proseguire con le due voci, provammo anche alcune ragazze, ma non si trovava nessuna persona adatta; fu a quel punto che presi in mano la situazione e dissi agli altri che provare a continuare solo con me non avrebbe potuto causare gravi danni: in fondo dal vivo stavo già cantando alcuni nuovi pezzi e tutto funzionava. Li convinsi e a fine ottobre, ci richiudemmo all'Esagono, coinvolgendo nelle registrazioni alcuni amici". Gli amici non sono gente qualsiasi: c'è Paolo Rossi, che regala alcuni interventi nelle febbrili Clan Balieue e Le lucertole del folk e in quella metafora della vita che è la popolaresca e frizzante La fòla dal Magalas; c'è Mara Redeghieri degli Üstmamò, che fa lo stesso ancora in Clan Balieue, nell'agrodolce Santa Maria del Pallone e nella delicata, evocativa Al Dièvel; c'è Mario Severini dei Gang, che con il fratello Sandro alla chitarra divide con Cisco le strofe di un'energica, appassionata cover de La locomotiva di Francesco Guccini, un altro inno politico ("essere in studio con Marino è stato un sogno: ero lì con gli occhi lucidi, come un bambino, a studiare quello che faceva"); e ci sono altri ospiti "minori" ma sempre graditi, a ribadire l'ideale di un'unità affettuosa insito nel titolo La grande famiglia. Una seconda prova che ribadisce, magari con meno epicità ma forse con maggior brio, i discorsi del debutto, con ulteriori, travolgenti, folk-punk (la title track e La banda del sogno interrotto, ode alla Sicilia sana), ballad ispirate a racconti di Resistenza (L'unica superstite), ad Albertone (La strada), all'Irlanda (Canzone dalla fine del mondo) e alla propria identità (La mia gente), medio-tempo che trattano di Calcio (Santa Maria del Pallone), della Lega (Giro di vite) e del fascino di essere busker (Il fabbricante dei sogni) più brevi interludi etnici come L'aquilone dei Balcani e il medley La mondina/The lonesome Boatman. "Ci premeva parlare delle persone che avevamo via via conosciuto e con le quali si stavano instaurando rapporti stretti, dei locali dove andavamo a suonare e delle osterie dove eravamo invitati a cena; insomma, quasi un concept sulla collettività e sul nostro mondo. Sotto il profilo strettamente compositivo ero ancora un po' indietro, collaboravo ma ero concentrato soprattutto sulle mie nuove responsabilità di cantante unico. Però condividevo tutto, anche perché io non sono un interprete: per cantare ho bisogno di sentire ogni singola parola, altrimenti non se ne fa nulla".
Nel marzo del 1996, quando La grande famiglia è da un mesetto nei negozi, prende il via il nuovo tour senza Gaetani e Michelini: al loro posto ci sono Massimo Giuntini e Francesco Moneti, entrambi degli aretini Casa del Vento. "Avevamo stabilito di licenziarci dalle nostre occupazioni normali perché il gruppo era ormai una faccenda seria: una scelta un po' pesante da accettare, perché eravamo tutti molto legati al nostro modo un po' 'cazzone' e burlonesco di essere i Modena City Ramblers, ma la perdita della parte ludica era compensata dall'acquisto di una più professionale. I soli a non sentirsela furono Luciano e Marco, e benché rammaricati non potemmo dar loro torto: lavoravano rispettivamente in banca e come psicologo, e il sacrificio sarebbe stato eccessivo. Così attingemmo nella Casa del Vento, che già da alcuni anni suonavano musica simile alla nostra: con noi venne anche il loro leader Luca Lanzi, che fu ingaggiato come tour manager". Le oltre 40.000 copie vendute e le folle che prendono parte ai riti catartici dei concerti (compreso quello del 1 maggio a Piazza S. Giovanni, a Roma) testimoniano un successo clamoroso, replicato in autunno nella decina di date con Paolo Rossi ("ci divertimmo da matti, e Paolo sembrava proprio uno di noi"). In mezzo, una pausa che per Cisco è molto più di un'occasione di riposo. "In pratica giravamo come trottole da quattro anni, e avevamo bisogno di staccare la spina. Decisi di farlo nella maniera più radicale, e per tutto il mese di settembre ho battuto in lungo e in largo la Patagonia, completamente da solo. Mi spostavo in treno, in autobus, in nave, cercando le sensazioni e le emozioni dei libri di Sepúlveda, di Marquez, di Chatwin; è stato il viaggio più bello della mia vita e al rientro a casa ero ritemprato e più che mai fiducioso in me e nei miei soci". E un'altra memorabile trasferta, ma per tutti i componenti, è quella consumata in dicembre, quando i nostri si recano nel Sahara a suonare per i profughi locali ("Cinque giorni di autentica magia nelle tende del deserto, che rafforzarono ancor più la nostra intesa e la nostra determinazione").
È una compagine animata da stimoli diversi, quella che a inizio '97 avvia al lungo processo evolutivo che nove mesi più tardi si traduce in Terra e libertà, immancabilmente influenzato dalle inedite esperienze raccolte in strada. "Ho visto un altro mondo e volevo in qualche modo farlo rivivere nella musica e nel lavoro dei Ramblers; il mio intento era lo stesso di Alberto e Giovanni, che avevano visitato Messico e Cuba. In quel periodo nei Ramblers si sviluppò un nuovo equilibrio: dovevamo convincere i compagni che non avevano compiuto il nostro percorso della possibilità di fare le nostre cose in un'altra forma, con altri modi e con un altro immaginario, quello ispanico-americano, ma non ci furono problemi. Era il primo album che affrontavamo 'da professionisti', e ci imponemmo una regola: per sei mesi ci incontravamo in sala prove tre o quattro volte la settimana, otto ore al giorno, per elaborare assieme canzoni e suono. Fummo estremamente prolifici, tanto che ci trovammo con una quarantina di pezzi; scoppiarono però anche frizioni tra Alberto e Giovanni, ed io dovetti fungere da ago della bilancia: mi assunsi dunque il compito di scremare il materiale e probabilmente commisi anche qualche errore... col senno di poi, ad esempio, sarebbe stato il caso di eliminare Don Chisciotte e Cuore blindato, che pur non essendo in sé malvagie non aggiungono nulla alla scaletta e la rendono un po' prolissa. Inoltre, in generale, avremmo probabilmente dovuto 'spiegare' il disco con qualche nota nel libretto, perché non tutti hanno capito i vari collegamenti e dove volessimo andare a parare". Troppo esteso e troppo criptico oppure no, Terra e libertà - l'omaggio è ovviamente all'omonimo film di Ken Loach - è un coraggioso, riuscito tentativo di scrollarsi di dosso la pur lusinghiera etichetta di "Pogues emiliani" attraverso il ricorso a riferimenti più spiccatamente latini, senza peraltro rinnegare la dottrina combat-folk sulla quale la band ha edificato la propria fama: ecco così le grintose e sanguigne Macondo Express, Il ritorno di Paddy Garcia, Il ballo di Aureliano, Transamerika e Cent'anni di solitudine accanto alle soffici e avvolgenti Remedios la bella, Qualche splendido giorno, Lettera dal fronte e L'amore ai tempi del caos, con le convulse L'ultima mano e Danza infernale (due storie di mare), l'ipnotica Radio Tindouf (stupenda eredità del Sahara) e la strumentale Marcia Balcanica (un titolo, un programma) a dar luogo ad interessanti divagazioni. "Al concetto del disco hanno contribuito le chiacchiere con Luis Sepúlveda, Paco Taibo o Daniel Chavarria, conosciuti sempre nel 1997 grazie ai festival di letteratura, mentre sul piano musicale il modello erano i Mano Negra di Manu Chao: non eravamo certi di poterci destreggiare con quelle cadenze così differenti, ma volevano ad ogni costo provarci. Nel complesso, Terra e libertà - a mio avviso il nostro capolavoro, pur non essendo rappresentativo come il primo - incarna il momento della nostra presa di coscienza, del nostro essere diventati meno giocherelloni e più adulti".
Qualche fan è abbastanza disorientato dal cambiamento, ma i Ramblers non si scompongono. Rientrati in ottobre dalla Bolivia, dove si sono esibiti nel contesto delle celebrazioni per il trentennale dell'assassinio del Che (a luglio erano stati a Gijon, in Spagna, invitati alla Semana Negra da Taibo), i ragazzi si imbarcano in una tournèe nei palazzetti che non consegue i riscontri auspicati, anche se le presenze non deludono e le vendite di Terra e libertà non calano rispetto al passato; e a incupire gli animi arriva poi, nonostante le 100.000 persone assiepate in piazza, un concerto a Cuba assieme ad artisti locali organizzato a dicembre da Rifondazione Comunista ("eravamo una carovana di quaranta individui che si spostavano tutti assieme, una confusione pazzesca, e poi c'era anche qualche tensione interna tipo quelle degli ultimi mesi con Albertone"). Per ritrovarsi, nel 1998, l'ensemble riparte in tour, questa volta nei club: sui volti riappaiono i sorrisi, che divengono smaglianti a ottobre quando al Sisten Irish Pub di Novellara viene registrato Raccolti, album acustico con quindici "classici" e tre inediti (Notturno Camden Lock, A gh'è chi g'a' e La fiola dal paisan). "Cominciavamo un po' tutti a subire la dimensione rock, ma soprattutto a me dava fastidio che parte del nostro pubblico non avesse capito Terra e libertà, considerandolo una specie di corpo estraneo. Per dimostrare che non era affatto così, e che al di là dei colori e delle sfumature diverse non esisteva uno stacco netto tra i primi due album e l'ultimo, proposi di incidere un live sullo stampo di Music At Matt Molloy's, un celebre disco irlandese, prestando particolare attenzione a riarrangiare in chiave 'vecchi Modena' i brani più recenti. Abbiamo poi scelto il meglio delle quattro serate, a ognuna delle quali ha assistito un centinaio di invitati, traendone un disco di settanta minuti" . Pubblicato in dicembre, Raccolti ha come prevedibile appendice una decina di date teatrali - incentrate sulle ballate ma non prive di aperture "punk" - a cavallo tra gennaio e febbraio 1999, senza il dimissionario Giuntini ma con Gaetani nei panni dello special guest: dieci estratti dalle tappe di Rimini e La Spezia, tra le quali lo strumentale altrove irreperibile Richard Dwyer's Set e L'atomica cinese, finiranno in Il resto raccolto, cd in mille esemplari disponibile solo presso il neonato fan club e ai concerti.
"Poiché il nostro spettacolo abituale non era adatto ai teatri, ne abbiamo inventato uno apposito, con una scenografia da pub. Il guaio è che la gente voleva ugualmente ballare e saltare, anche se noi avevamo concepito un tour 'da ascolto'".

Altri Mondi
1999-2004
Nella primavera del 1999 i Ramblers sono prima in Irlanda per lavorare al quarto album, e poi all'Esagono per registrarlo; con il master pronto e l'uscita fissata per la fine di settembre, tocca poi ad una ventina di date estive davanti a un mucchio di spettatori, nelle quali vengono eseguiti anche alcuni pezzi appena terminati per Fuori Campo. "È un disco che forse non si sarebbe dovuto fare, vissuto all'interno con umori diversi e senza chiarimenti che le fratture lasciate da Terra e Libertà avrebbero reso necessari. Essenzialmente, eravamo confusi. La mia idea, che cercai di applicare scegliendo le canzoni e il loro ordine era 'chiudere il cerchio' con un riassunto del nostro intero percorso mescolando acustico, etnico, rock, punk, folk, Pogues, Clash, Mano Negra… ed è nato Fuori Campo: un disco figlio delle paure e delle relazioni difficili. Per la preproduzione siamo andati in Irlanda, sperando che ci ricompattasse… invece ci ha definitivamente divisi, specie con Giovanni. Lui aveva deciso che Raccolti sarebbe stato il suo ultimo album con noi: si sentiva prosciugato, dato che il gruppo aveva assorbito per anni tutte le sue energie. Lo spirito del tour teatrale lo persuase a rimanere ma lui non era contento, anche se gli davamo molto spazio perché non volevamo perderlo. Fuori Campo è la cosa migliore che potessimo realizzare in quello specifico momento, ma il processo fu così doloroso che il giorno dell'uscita Giovanni annunciò che se ne sarebbe andato. Eravamo a Gijon a festeggiare i cinquant'anni di Sepúlveda e a girare il video, e a quel punto ero determinato a lasciare la band anch'io: non perché non volessi averci più nulla a che fare ma perché ritenevo occorresse qualcosa di forte per smuovere la situazione. Fu proprio Giovanni a convincermi che, invece, potevo e dovevo andare avanti , perché l'idea dei Modena era più importante delle persone che ci suonavano. Il clima della tournée invernale rispecchiò quello dell'album, e nonostante dal vivo tutto funzionasse non lo vissi granché bene, anche perché in quel periodo avevo un po' di problemi di carattere personale. L'ultimo concerto con Giovanni come membro della società Modena City Ramblers fu quello del capodanno del 2000 a Piazza Grande a Modena, insieme a Goran Bregovic". Tipica opera di transizione Fuori Campo ha come note positive la raffinata produzione di Kaba Cavazzuti , la "benedizione" di Sepúlveda (che recita nella title track) e le canzoni più progressiste come l'africaneggiante La rumba, la stessa Fuori campo che ammicca al reggae, la brillantissima cover anch'essa "in levare" del canto di lotta Figli dell'officina; più o meno tutto il resto, benché non scadente (fra le tracce più incisiva Celtica Patchanka e la dolcissima Suad; tra le più deludenti, invece, la scialba Etnica danza e la pacchiana Movimento) rimanda invece direttamente a episodi del passato senza però perderne il fascino. I delusi, comunque, si consolano con Combat Folk - L'Italia ai tempi dei Modena City Ramblers, valida biografia ufficiale scritta da Paolo Ferrari e Paolo Verri e confezionata dalla Giunti.
"Dopo ci fermammo un po' perché avevamo bisogno di riflettere. Mi confrontai molto con Albertino e cominciammo a pensare al dopo-Giovanni, ma non ci fu modo di farlo seriamente perché dopo qualche mese anche lui diede le dimissioni. La goccia che fece traboccare il vaso fu uno screzio tra noi due, ma forse il vero problema era l'assenza di Giovanni, che più di noi altri aveva accompagnato la sua storia musicale. Poco prima che andasse via incidemmo Madre Terra per A come Ambiente, una compilation del quotidiano La Stampa finalizzata alla sensibilizzazione per il riciclaggio dei rifiuti" . Con Albertino e Giovanni fuori gioco e già immersi nei loro personali progetti di folk "contaminato" (i Caravane de ville per il primo e i Fiamma Fumana, peraltro già attivi da tempo, per il secondo) i superstiti partono per un tour estivo che vede il rientro nei ranghi dell'ospite Luciano Gaetani e Massimo Giuntini e l'ingresso di Kaba come percussionista aggiunto ("Fummo costretti a rimettere in discussione quello che si era stabilito dopo la defezione di Giovanni; decidemmo così di non provare a sostituire Albertino e di ripulire il suono della fisarmonica, per noi fondamentale ma un po' ingombrante, e dare maggior peso a strumenti come flauto, violino, mandolino. Le date andarono bene ma ci fu di nuovo bisogno di una pausa"). In autunno i ragazzi sono però in Sud Africa, richiesti per una collaborazione dalla locale band etno-folk-fusion Landscape Prayers (due i brani concepiti a più mani: Lontano, che darà il titolo all'album e del quale i Modena si riapproprieranno nel 2004, e Un mondo che balla).
Mentre Massimo Ghiacci e Franco D'Aniello sfruttano la sosta impegnandosi nella produzione di Pazienza santa dei Paulem per la neonata MCRecords, Cisco comunica di voler incidere un disco con gli amici Casa del Vento. Il proposito, che ha come seguito un'applaudita tournée invernale, si concretizza nel febbraio 2001 con 900: molti dei tredici episodi sono del quintetto aretino e altri sono frutto di uno stretto sodalizio, con Cisco ad assumersi gli oneri (e gli onori) vocali in misura maggiore rispetto al suo alter ego Luca Lanzi. Semplificando, Cisco e la Casa del Vento sono una sorta di Ramblers vecchio stile ma più "cantautoriali", legati al folk celtico (ma non solo) e alla canzone di lotta: il modernista A las barricadas! (in Fuori campo avrebbe fatto un figurone), il solenne Partendo da Est, il malinconico Falena e il gucciniano, enfatico Tra cielo e terra sono tra i vertici di un album sincero e ispirato, tanto nei temi trattati che nell'approccio per lo più lirico (e solo sporadicamente "punk") che lo caratterizza. "A questo punto più di uno ha ipotizzato un imminente scioglimento dei Modena: legittimo, ma 900 non era un mio disco solistico, era un lavoro al quale ho contribuito al 50 percento cantando, arrangiando, scrivendo e producendo. Essendo la prima cosa importante che facevo fuori dal gruppo, è stata utile a responsabilizzarmi e 'allenarmi' per il futuro. Inoltre, al di là del piacere di collaborare con persone care, a me affini e molto dotate artisticamente, volevo allargare la 'Grande Famiglia' e dimostrare che i Modena City Ramblers rimanevano una realtà in evoluzione, che pur perdendo pezzi poteva pure trovarne altri. E ritrovare quelli che aveva smarrito, e generare figli". E in tale ottica di "ampliamento" va giudicato il mini-tour che nella primavera del 2001 congiunge due generazioni di combat-(folk)-rockers nell'evento Gang City Ramblers: i Nostri e i fratelli Severini assieme nello stesso organico, a interpretare estratti da entrambi i repertori. Poi, con molta calma, si avvia il lungo lavoro di preparazione del quinto cd di studio, che tocca il culmine a cavallo tra i due anni con le registrazioni effettuate a Napoli da Enzo "Soulfingers" Rizzo e si conclude con l'uscita, nel febbraio 2002, di Radio Rebelde.
"È un altro disco molto concettuale, scaturito da un serio confronto interno, e per certi versi lo considero un debutto. Ho preso coscienza dei miei mezzi, ho persino iniziato a comporre con la chitarra e a usarla sul palco. Ma non sono stato il solo: basta pensare a Franco, che dopo vent'anni di flauto ha imparato da zero a suonare la tromba. Eravamo molto sereni, concentrati e senza tensioni, sebbene nei testi si avverta una certa cupezza: non poteva essere altrimenti, per brani composti nel periodo dei fatti di Genova e dell'11 settembre. Radio Rebelde è una spinta in avanti che rielabora i migliori spunti - elettronici, ma non solo - di Fuori Campo. Per me è perfetto, ad ascoltarlo mi emoziono ancora". Più che di perfezione, che come è noto non è di questo mondo, il termine giusto è transizione: non nelle liriche, a seconda dei casi apprezzabilmente pungenti o evocative ("C'è molto più di mio rispetto al passato, ma anche di Massimo"), bensì in uno songwriting a tratti banale (il punk clashiano de La legge giusta, ad esempio, sa davvero di routine) e in strutture musicali dove le pur buone intuizioni appaiono a volte incerte e fuori fuoco, e qua e là fini a se stesse. Estremamente eclettico (o dispersivo: dipende se si vuol vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto), Radio Rebelde ha comunque ottime frecce al suo arco, specie nei momenti più pacati: Carretera Austral, dalle atmosfere andine ("Era da un po' che volevo scrivere qualcosa sulla Patagonia e sui desaparecidos… alla melodia ha provveduto, in un batter d'occhio, Luca Lanzi"), Maisha, che invece profuma d'Africa, Terra del fuoco e Triste, solitario y final; tra i brani più ritmici spiccano invece l'ipnotica, atipica Veleno ("che è anche molto intellettuale"), una Ghetto reggae che sembra presa pari pari da Sandinista ("è molto Clash, ma non ci siamo mai fatti di questi problemi") e Una perfecta excusa ("sarebbe scanzonata se non fosse per il testo di Sepúlveda"), che ha nella ripetitività il suo fascino e il suo limite. Per il tour che si snoda in varie tranche fino all'estate 2003, in seguito al ritiro di Giuntini, è reclutato il polistrumentista Luca Giacometti ("viene da un gruppo di nostri amici che suonavano musica irlandese; in poco tempo è diventato fondamentale ed è ormai entrato nel cuore dei nostri fan"), mentre in un tot di date di fine 2002 riappare come "special guest" Giovanni Rubbiani; dopo i concerti benefici in Chiapas e Guatemala del gennaio 2003, e dopo la pubblicazione primaverile dell'ep Modena City Remix ("un divertimento, un gioco, un tentativo di accostarci ad un mondo parallelo che non ci dispiace; è assurdo che parte dello 'zoccolo duro' si sia addirittura sentito offeso dall'operazione"), c'è infine l'innesto del fisarmonicista Daniele Contardo ("molto bravo e competente, in qualcosa somiglia ad Albertino; era un po' indisciplinato, ma stando al nostro fianco si è adeguato presto"). Daniele è già presente nella prima traccia - Al Fiòmm, dolce ballata folk dedicata al Po; sarà ripresa dall'ultimo album - del cd-ep Gocce. "È legato al progetto della Coop 'Acqua per la pace', al quale teniamo molto e nell'ambito del quale andremo ad ottobre o novembre in Palestina: sarà un'occasione per cercare di capire qualcosa su ciò che accade davvero laggiù".
Pur non essendo classificabile come capolavoro assoluto, Viva la vida, muera la muerte! - nei negozi dallo scorso gennaio - dà segnali più che incoraggianti per il futuro dei Ramblers; non solo per la limpidissima produzione in chiave acustica di Max Casacci dei Subsonica, ma anche e soprattutto per lo spessore di episodi come il frizzante e (amaramente) sarcastico El Presidente, il grintoso e maestoso I cento passi (ispirato all'omonimo film di Marco Tullio Giordana; ancora un omaggio alla Sicilia che non si arrende alla Mafia), l'etereo e suggestivo Ebano (derivato da una outtake de La Grande Famiglia), gli intensi Stella sul mare (che come i più carezzevoli Al Fiòmm e La fòla ed la sira riallaccia i rapporti con il dialetto) e Altri mondi, senza dimenticare la rilettura della mitica Il testamento di Tito di Fabrizio De Andrè. "Pur muovendosi nel campo dell'elettronica, Max proviene dal nostro stesso mondo, quello della musica acustica e "alternativa": Mau Mau, Africa Unite, Fratelli di Soledad e Loschi Dezi. Per quattro mesi lui è stato il nono componente della band, modificando i nostri singoli atteggiamenti: con lui abbiamo adattato le nostre armonie più prevedibili in qualcosa di più ricercato e articolato. Inoltre è stato molto importante anche nelle liriche, nel linguaggio, per 'pulire' un po' il nostro modo di porci: siamo rimasti sempre diretti e folk, ma sostituendo un paio di parole su suggerimento di Max il tutto ha assunto un altro respiro; e poi ha saputo arginare la nostra esuberanza e la nostra tendenza a suonare dall'inizio alla fine in ogni brano, mettendo ordine in modo che ogni parte potesse essere apprezzata al meglio. Per me Viva la vida è più maturo, più studiato, meno emotivo e quindi più riuscito, ma per mio gusto preferisco Radio Rebelde, al quale sono affezionatissimo, anche perché - grazie al suo linguaggio diverso - ci ha consentito di raggiungere gente giovane che ora viene ai nostri concerti e comincia a scoprire e analizzare pure il nostro passato." E a proposito di passato l'autunno ha in serbo una bella e inaspettata sorpresa. "L'avventura dei Ramblers finirà in un dvd, Clan balieue - Grande famiglia in movimento, con interviste, filmati storici dal vivo e non, e tutti i nostri video-clip". Nulla di meglio, va da sé, per avere riscontro 'tangibile' della storia fin qui raccontata a parole e per fare il punto su ciò che è stato. Nell'attesa dei chissà quanti vagabondaggi che di sicuro verranno.


Nota: Un grazie alla Fran per averci inviato il testo.


 
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