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Elezioni americane: istruzioni per l'uso (Election day for dummies)

Riceviamo e pubblichiamo. Articolo inviato da arianeve il Martedì, 02 novembre @ 14:52:58 CET

Vagabondando in Rete ho trovato...Uno dei migliori sistemi elettorali al mondo… per l’inizio del XIX secolo(!), quello americano, deciderà nelle prossime ore chi mettere a capo della nazione più potente di questo mondo globalizzato. Ne sentiremo parlare ancora per giorni, assistendo impotenti allo spettacolo: tanto vale, allora, capire come funzionano...

Le regole del gioco
(dal blog di alessio - http://www.alessio.sevenseas.org/weblog/)

Mancano ormai poche ore alle elezioni presidenziali americane, e se le televisioni tutte spendono ore di commenti sui possibili scenari sono tuttora stupito di quanto poco spieghino del meccanismo dell’elezione. Il mito dell’elezione diretta del Presidente degli Stati Uniti fa peraltro gioco a chi vorrebbe adottare procedure americane anche nella nostra politica.

Il sistema è però molto più complesso, e le elezioni del 2004 lo metteranno a dura prova, con il rischio che non finisca affatto la mattina del 3 novembre. Alcune di queste complicazioni sono insite nella lettera della Costituzione, altre nascono invece dalla pratica della politica americana.

Molte di queste contorsioni derivano dal fatto che gli Stati Uniti, come dice il nome, sono uno stato federale nella cui Costituzione gli Stati (che sono diventati nel frattempo 50) hanno il massimo spazio: la divisione di poteri tra Stati e Unione è il tema di un po’ tutta la storia americana. Anzi, solo negli ultimi anni l’autorità del governo federale è diventata onnipresente, la battaglia dei “diritti civili” negli anni ‘60 era nei fatti anche un conflitto tra potere federale e potere degli Stati. Le elezioni per gli incarichi federali (originariamente visti come “amministrativi”) sono mediate dagli Stati in maniera spesso poco naturale, quasi come le istituzioni della Serenissima Repubblica di Venezia: parliamo d’altronde di un sistema pensato alla fine del XVIII secolo…

Il Parlamento degli Stati Uniti (noto come Congresso) è formato da due camere, la Camera dei Rappresentanti (House of Representatives) e il Senato: mentre la Camera è eletta attraverso collegi uninominali che hanno all’incirca la stessa popolazione (e quindi gli stati più grandi hanno più seggi), il Senato è la rappresentanza degli Stati, che hanno due seggi ciascuno a prescindere dalla popolazione. Il Senato è piccolo (nacque con 26 membri, oggi ne ha 100 perché gli Stati sono passati dai 13 del 1776 ai 50 di oggi), potentissimo (approva ministri e giudici), stabile (i senatori restano in carica sei anni e solo un terzo dei seggi va in palio ad ogni elezione), mentre la Camera ha 435 seggi e viene rieletta completamente ogni due anni. Una situazione che è diventata classica per paesi fortemente federali.

Ma non si stava parlando dell’elezione del Presidente? Certo. Per eleggere il Presidente degli Stati Uniti si utilizza un collegio elettorale che ha la stessa composizione del Parlamento riunito: ogni Stato ha un numero di rappresentanti pari alla somma di deputati e senatori, e quindi si varia da 3 voti per uno stato piccolo come il Vermont (2 senatori, 1 deputato) a 55 voti per la California (2 senatori, 53 deputati). In pratica, nulla di dissimile dall’elezione del Presidente della Repubblica italiana, che viene nominato in seduta congiunta da Camera e Senato, se non che il Senato italiano non ha un numero di seggi uguale per ogni regione (a differenza del Bundesrat tedesco). Qui però cominciano le differenze.

Invece di organizzare una seduta comune di Camera e Senato e chiamarla collegio elettorale, la Costituzione prevede che il collegio sia eletto ad hoc e in un’unica tornata: i “grandi elettori” di tutti gli Stati poi eleggeranno il Presidente. Il collegio rifletterà quindi la sensibilità politica dell’elettorato nel primo martedì di novembre di ogni anno bisestile. Ammesso e non concesso che ogni Stato elegga i propri elettori in elezioni popolari: la Costituzione nulla dice su come gli Stati debbano giungere all’elezione, quindi potrebbe essere una nomina da parte del Parlamento statale, oppure addirittura una nomina del solo governatore (è successo). La Costituzione non vieta insomma che siano i 50 Governatori ad eleggere il Presidente…

Qui interviene il primo elemento di prassi: i grandi elettori vengono eletti nei rispettivi Stati in quanto si impegnano a votare per un certo candidato nel collegio elettorale, quindi non si vota in realtà per Kerry (o Bush) ma per un grande elettore che alla riunione del collegio si impegnerà a votare per quel candidato. Sulla scheda elettorale si legge allora “Kerry” (o Bush, o Nader) e in questo meccanismo si considera l’elezione come “diretta” anche se in realtà è mediata da almeno due livelli, il grande elettore e il collegio elettorale.

L’elezione del Presidente è quindi da alcuni considerata non democratica per almeno due motivi. Il primo è l’evidente vantaggio dato agli stati più piccoli che partono da un minimo di tre voti nel collegio, grazie al fatto che hanno più senatori che deputati, e quindi un voto nel collegio elettorale “vale” in realtà un numero differente di elettori. Questo è vero, ma al tempo stesso spiegabile con il forte orientamento federalista della Costituzione americana, che privilegia gli Stati. Il secondo punto invece riguarda ancora l’implementazione delle elezioni nei diversi Stati: nella grande maggioranza degli Stati (tranne Maine e Nebraska) “winner takes all”, quindi tutti gli elettori di quello Stato vanno al candidato che ha preso più voti complessivamente, fossero anche una manciata.

Questa procedura non è scritta nella Costituzione, ma è semplicemente una consuetudine che si è radicata e che da un lato si appoggia e favorisce il bipartitismo tra Repubblicani e Democratici a danno di possibili terzi partiti e candidati che non possono così trovare spazio per crescere, dall’altro concentra la campagna elettorale in pochi battleground states. Se infatti è impossibile erodere la maggioranza per Kerry in California o New York, o quella di Bush in Texas (i tre stati con più voti) la campagna si è concentrata su Florida, Ohio, Pennsylvania, dove pochi voti popolari possono far passare di mano 20 e più voti del collegio elettorale, e quindi l’elezione alla presidenza. Ecco quindi la scarsa utilità dei sondaggi nazionali, se non come tendenza: più importante sapere cosa pensano nella Contea di Clark, in Ohio, mentre gli abitanti di San Francisco e New York in pratica non possono incidere più di tanto nella scelta.

Il deficit democratico del processo elettorale potrebbe essere corretto se più stati eleggessero i propri elettori in maniera proporzionale, dando quindi spazio a più voci: un referendum in Colorado si propone di eleggere gli elettori dello Stato appunto in maniera proporzionale. Ma è la natura stessa della politica americana sul terreno a incasellare tutto nella dialettica tra i due maggiori partiti, e nella battaglia per assicurarsi i voti del centro.

Proprio per queste prassi le elezioni presidenziali sono quasi sempre andate lisce (con l’eccezione del 1876 e del 2000), ma il sistema è intrinsecamente fragile: cosa succederebbe se un grande elettore decidesse di cambiare candidato prima di esprimere il suo voto in dicembre? È successo, ma solo in casi di maggioranza consolidata, non si sa cosa succederebbe in caso di maggioranza di uno. E cosa succederebbe se non c’è una chiara maggioranza nel collegio? Questo è l’aspetto più interessante, ed è peraltro già successo: in questo caso entrano in scena meccanismi a dir poco bizantini.

Infatti il collegio elettorale ha a disposizione “un solo colpo” : in caso nessun candidato abbia la maggioranza al primo voto, l’elezione del Presidente passa nelle mani della Camera (da sola) mentre quella del Vice-Presidente in quella del Senato, che peraltro il VP in carica presiede. Ad aggiungere confusione, non è conteggiata la maggioranza dei membri della Camera, ma la maggioranza delle delegazioni degli Stati, cioè i rappresentanti di uno stesso Stato devono decidere tra di loro quale candidato il loro Stato appoggia. Riecco la forte impronta federalista dell’elezione del Presidente, alla faccia dell‘“elezione diretta”. Nei fatti, c’è chi pensa che i padri costituenti americani spingessero verso un’elezione quasi sempre risolta dalla Camera dei Rappresentanti e non lasciata al voto popolare, anche se ciò accadde solo nel 1800 e nel 1824.

Ma come può succedere che il collegio elettorale non abbia una chiara maggioranza (270 voti)? Non è così difficile: per prima cosa il numero di elettori è pari, poi se vi sono più di due candidati che ottengono voti nel collegio, è del tutto possibile che nessuno dei tre (o quattro, ecc.) abbia la maggioranza richiesta, e non sono previsti voti successivi di ballottaggio o di alleanza per trovarne una. Non successe per poco nel 1968 e potrebbe succedere se più stati optassero per un’elezione dei delegati in maniera proporzionale che permetterebbe un ruolo al Partito Libertario o ai Verdi. Oppure poteva succedere se non si fosse deciso di conteggiare i voti elettorali della Florida nel 2000 a causa della confusione del processo elettorale: nel 1789 lo stato di New York non fece in tempo ad eleggere i propri grandi elettori e fu quindi escluso dall’elezione. Nel 2000 Al Gore fece buon viso e cattivo gioco e rinunciò ad ogni ulteriore tentativo di invalidare il risultato della Florida, ma è quasi certo che in queste elezioni lo sconfitto non accetterà supinamente il risultato in uno o più stati. Così come successe nel 1876, un’elezione piena di irregolarità condotta immediatamente dopo la Guerra Civile.

Perché entrare così nel dettaglio dei tecnicismi del processo di elezione? Purtroppo a quarantotto ore dall’elezione i punti critici sono tanti e tali che appare difficile che mercoledì mattina il tutto si concluda tranquillamente; meglio avere una mappa quindi. Il 2000 mise alle corde il processo elettorale, che fu alla fine recuperato da una decisione della Corte Suprema ma dopo l’attenzione dei primi mesi nulla è stato fatto per renderlo più solido e più adeguato al XXI secolo. Il 2004 potrebbe essere l’anno in cui il bizantinismo di un processo inventato nel XVIII secolo conduce al caos, che sarebbe dannoso per tutto il mondo.


altri blog che ne parlano:
http://www.macchianera.net/archives/2004/11/ci_tocca_guarda.html
http://www.brodoprimordiale.net/


Nota: dal blog: www.alessio.sevenseas.org/weblog/

 
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