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L'uomo di Santiago (articolo di Le Monde)

Riceviamo e pubblichiamo. Articolo inviato da Inti il Venerdì, 11 giugno @ 17:03:11 CEST

Per Non DimenticareNel settembre 1973, all'epoca del colpo di stato di Augusto Pinochet, uno sconosciuto è fotografato nello stadio della capitale cilena. Diventata il simbolo della repressione, questa foto farà il giro del mondo. Il prigioniero resterà anonimo fino al 2003.

L'uomo di Santiago


Uno di quei negativi in bianco e nero che fanno la memoria di un popolo.
Un giovane uomo incorniciato da due soldati cileni, un giorno di settembre
1973, nello stadio di Santiago trasformato in campo di detenzione, dopo
il colpo di stato di Augusto Pinochet.

Il suo sguardo terrorizzato è stato colto all'insaputa dei militari
dal fotografo americano David Burnett. La foto ha fatto il giro del pianeta,
diventando uno sei simboli della repressione. Le Monde l'ha diffusa sulla
prima pagina della sua edizione del 12 settembre 2003. In Cile ha illustrato
la copertina di numerosi libri, la si è riconosciuta nei film dedicati
al colpo di stato o sui manifesti anti Pinochet.
L'uomo dagli occhi neri è rimasto anonimo per trent'anni. Nessuno
conosceva il suo nome. Impossibile sapere se avesse sopravvissuto a questa
prova. Impossibile trovarne traccia presso le organizzazioni di difesa
dei diritti dell'uomo, all'interno dell'Associazione delle famiglie dei
desaparecidos o negli archivi del vicariato della solidarietà della
Chiesa Cattolica, molto attivo presso le vittime della dittatura. "ho sempre
temuto di sapere cosa era diventato, per paura di scoprire il peggio",
confida
David Burnett. Il "peggio" non è successo: lo sconosciuto di
Santiago è vivo. Le Monde lo ha incontrato.
Daniel Cespedes, è il suo nome, oggi ha 53 anni. Vive in una
poblacion (bidonville) di Rancagua, a 100 Km a sud della capitale, con
la sua compagna, Erika, e il figlio di lei, Erik, che ha 13 anni. Certo:
il viso è più tondo, i capelli e le sopracciglia sono sbiancati,
ma gli occhi sono sempre ugualmente neri. Come se la vita avesse continuato
ad essere segnata dalla paura per il sopravvissuto dello stadio dove Pinochet
fece torturare ed uccidere migliaia di persone.
Mi soprannominano "Freddy", precisa aprendo la porta della sua piccola
casa. Di taglia media, si frega le mani l'una contro l'altra, rugose, maltrattate
dalla fatica. Dietro di lui, Erika ha uno sguardo sospettoso. "I vicini
crederanno che siamo comunisti", dice per scusarsi della freddezza dell'accoglienza.
Nella strada nessuno conosce il passato di quest'uomo. RAccontare il suo
passato di detenuto politico non gli ha portato che problemi in un paese
dove l'oblio è stato imposto da 17 ani di dittatura e da 13 di una
transizione democratica pervasa dal fantasma di Pinochet.
Daniel Cespedes ha vissuto a lungo a Santiago, ma ha sempre avuto difficoltà
a trovarvi un lavoro. LA compagnia privata Telefonica lo ha licenziato
quando i direttori hanno scoperto il suo passato. La società Olivetti
ha rifiutato di assumerlo per le stesse ragioni. Adesso è elettricista,
specializzato nelle istallazioni minerarie. Viaggia molto, fino al Peru,
quando riesce a strappare un contratto temporaneo.
Rancagua, dove abita dal 1992, è una città industriale
di 180.000 abitanti, dinaminca e prosperosa grazie alla esconda miniera
di rame del paese, El Teniente. A qualche Km dal centro, la bidonville
Esperanza è un quartiere modesto ma vanitoso. Le villette sono di
legno o di cemento, allietate da giardini.
Il salotto della coppia è accogliente, con delle tendine bianche,
chincaglieria dappertutto e dei fiori di plastica. Daniel preferisce la
cucina, dove ci si può sedere attorno a una tavola. Erica lo cova
con lo sguardo. Erik è pieno di ammirazione per quest'uomo che lo
ha adottato dopo la morte di suo padre, e che una foto, LA foto, ha reso
celebre. Come colonna sonora, Charles Aznavour canta in francese. Il padrone
di casa adora Aznavour: ha tutto il suo repertorio in versione originale
ed in spagnolo. Ma. oggi, lo ascolta appena, assorbito com'è dall
suo racconto e da quella foto, sempre lei, posata sulla tela cerata.
"Quando l'ho vista per la prima volta, si ricorda, era nel 1979, in
un articolo di giornale consacrato all'anniversario del colpo di stato
dell'11 settembre. Un giornalista ha voluto intervistarmi, ma ho rifiutato.
Avevo paura che l'inferno ricominciasse. Avevo paura di perdere il mio
lavoro". Egli cercherà invano di dimenticare quelle giornate del
1973. Aveva 23 anni, era sindacalista e militante della gioventù
comunista.
Il 12 settembre 1973, all'indomani del colpo di stato fatale al socialista
Salvador Allende, Daniel Cespedes si presenta al suo lavoro, in un laboratorio
farmaceutico. All'ora del coprifuoco, decide di raggiungere qualche amico
davanti alla facoltà di chimica e di farmacia, presso la piazza
d'Italia.
Dei giovani soldati lo arrestano. "Mi hanno gettato in un camion, racconta,
ero schiacciato sotto i corpi di altre persone arrestate durante tutta
la notte. Mi ricordo il dolore provocato dal filo di ferro che mi serrava
i polsi".
E' condotto alla Scuola Militare. Un ufficiale confisca i suoi documenti
insieme ai soldi destinati a comprare una cucina a sua madre. Durante i
45 giorni che durerà la sua detenzione, nessuno lo chiamerà
più col suo nome. Daniel Cespedes, nato il 14 gennaio 1950 e figlio
unico di madre celibe, perde la sua identità. "Avresti detto che
era un esercito d'occupazione, ricorda. Non capivo perchè ci maltrattassero.
Avevo sempre avuto rispetto per l'esercito cileno. Da bambino adoravo assistere
alle parate militari".
La scuola militare, le prigioni di Santiago, sono troppo anguste per
le migliaia di prigionieri. Daniel è dunque trasferito allo stadio
nazionale. I prigionieri, che i loro carcerieri trattano da "comunisti",
si stringono nei loro vestiti. Il giovane non conosce nessuno. "Ogni due
o tre giorni dei soldati venivano a cercarci. Ogni volta ci dicevano che
ci avrebbero fucilati. Avevo la paura nel ventre, una terribile paura di
morire." Egli non ha dimenticato i momenti in cui ha pianto, in cui ha
pisciato nei suoi pantaloni. Gli occhi bendati, è picchiato. Alla
testa, al ventre, nei genitali. Alcuni dei suoi compagni muoiono sotto
i colpi. Undici anni più tardi, all'età di 34 anni, Daniel
soffrirà di un edema cerebrale che i dottori attribuiranno alle
sevizie subite allora.
I torturatori lo interrogano senza sosta su una misteriosa "chiave"
di cui non ha mai sentito parlare. Questa gli vale numerose sessioni di
scossa elettrica. In nessun momento gli chiedono il suo nome. Tra i suoi
compagni di detenzione, dei dottori o degli psicologi tentano di lenire
le sue ferite. "Il peggio era la sofferenza psicologica", racconta Daniel.
Le grida notturne degli uomini, delle donne, torturati di giorno. Le umiliazioni,
la degradazione umana, la convinzione che morirà. Daniel, preso
da un riso nervoso, si ricorda improvvisamente di un prigioniero, cuoco
all'Hotel Carrera: "Ci faceva una lista di menu immaginari. Ciò
può sembrare cinico, ma immaginare una colazione con succo d'arancia
e delle uova al bacon mitigava la fame". Il menu reale si limitava a un
quarto di pane e due tazze di tè al giorno.
Scrutando di nuovo la foto, Daniel stima che sia stata scattata almeno
due settimane dopo il suo arrivo allo stadio, a causa della barba nascente.
Un gruppo di giornalisti visitavano i luoghi sotto scorta militare. "Quando
il fotografo ha scattato il negativo i soldati stavano cercandomi per torturarmi",
assicura. Daniel non ha mai saputo perchè è stato in seguito
liberato. Si ricorda giusto la voce del giovane soldato che ha pronunciato
per la prima volta il suo nome: "Daniel Cespedes".
All'uscita dello stadio, decine di famiglie aggrappate alle recinzioni
si gettano su di lui, lo subissano di domande sugli altri prigionieri.
Non sa che rispondere. Non ha più documenti nè un soldo in
tasca. Una coppia lo accompagna da sua madre. Questa lo riconosce a stento,
tanto è dimagrito. Ha un odore nauseabondo. E' da un mese e mezzo
che non fa una doccia. Sua madre preferisce gettare i vestiti sporchi.
Anche la sahariana dove ha annotato, nell'interno delle tasche, i numeri
di telefono delle famiglie dei detenuti che doveva contattare per dare
notizie. "Mia madre aveva preparato della carne ed un'insalata, prosegue.
Ma, al primo boccone, ho vomitato, io mio stomaco rifiutava qualsiasi nutrimento".
Per delle settimane, non osa uscire dal piccolo appartamento della via
Vivaceta, vicino a piazza di Spagna. Abituato a dormire sul pavimento per
più di un mese allo stadio, continua incapace di riabituarsi al
suo letto. Ha degl incubi, si senta colpevole pensando ai detenuti rimasti
"laggiù". Il minimo rumore lo sveglia, lo fa sobbalzare. Al laboratorio
dove lavorava prima del suo arresto, gli si fa capire che è più
conveniente dare le dimissioni. Ci metterà più di un anno
a trovare un datore di lavoro che non gli chiederà i suoi precedenti.
Rinunciando alla politica, Daniel si sposa. "Un modo, confessa, di rompere
col passato. Mia moglie aveva 16 anni, era una ragazzina. Io non mi sentivo
a mio agio." Questa unione sarà un fallimento. I due giovani si
separano poco dopo la nascita del loro secondo figlio. Il più vecchio,
Claudio, oggi ventisettenne, non ha potuto arruolarsi nella marina a causa
del passato di suo padre e della separazione dei suoi genitori (il divorzio
è vietato in Cile). Egli vive in Spagna con sua madre. Sua sorella,
Daniela, 26 anni, vive a Santiago; ha un figlio di 6 anni.
Quando ho conosciuto Daniel, non sapevo praticamente nulla della sua
vita precedente, interrompe Erika, che vive con lui da 12 anni. All'epoca,
non parlava. Adesso, parla velocemente, come se il fatto di esprimersi
lo scaricasse. I suoi occhi si riempiono spesso di lacrime, ma egli è
impaziente di esorcizzare il passato e di ricostruire il puzzle della sua
vita. "Pinochet è un nazista", escla,a, aggiungendo che amava "motlo,
molto Allende". "Aveva delle buone idee, ma era male accompagnato", valuta
Daniel, che non ha mai cercato di riprendere contatto col Partito comunista.
"All'uscita dello stadio, dei membri del PC mi hanno chiesto di partecipare
a degli atti di sabotaggio contro la dittatura, ma ho rifiutato. Non volevo
più saperne nulla della politica . Ero pieno di diffidenza e di
rabbia".
Malgrado il ritorno alla democrazia nel 1990, molti padroni rifiutano
di assumere degli ex detenuti o degli ex sindacalisti. "Le liste nere circolano
ancora", afferma Daniel. Quando non ha lavoro, deve cercare un affitto
più economico. "Non si è mai occupato di reclamare le indennità
accordate ai vecchi detenuti della dittatura", afferma Erika. Mai, nemmeno,
ha ricevuto un centesimo sui diritti di quella foto. Il suo sogno è
oggi di poter comprare una casa e di avere di che pagare gli studi di Erik,
che spera di diventare storiografo.
L'11 settembre 2003 si è profondamente commosso guardando, in
televisione, le cerimonie che commemoravano il colpo di stato del settembre
2003. Un anniversario segnato da un'imponente copertura mediatica, con
centinaia di testimonianze e di documenti d'epoca. "Mi sono improvvisamente
ricordato dei dettegli dimenticati, assicura Daniel, ho scoperto altre
informazioni, mi sono sentito meno solo".
In quell'occasione, lo stadio Cile di Santiago è stato ribattezzato
col nome di Victor Jara, il compositore che vi fu detenuto e torturato.
Il suo cadavere, crivellato di pallottole e con fratture multiple alle
mani, fu in seguito ritrovato in un campo.
Daniel, lui non è uscito dall'ombra. E' restato l'uomo di Santiago,
l'uomo della foto.


Christine Legrand


 







 
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Dean (Voto: 1)
di magen1234 il Sabato, 06 dicembre @ 14:22:43 CET
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